Agli inizi dell’estate ormai passata, anticipata da un affondo del M° Muti, è sortita una breve polemica attorno alla musica liturgica che si ascolta nelle chiese italiane, con un articolo pubblicato da Repubblica, cui ha risposto L’Osservatore Romano.
Non è stata certo la polemica di fine Cinquecento fra Artusi, Eximeno, Vincenzo Galilei, Zarlino e i fratelli Monteverdi, ma vale la pena spendere due parole. Chi si occupa di tale argomento con una certa cognizione di causa è sobbalzato alquanto nel leggere i due pezzi.
Nel primo, dopo una condivisibile disamina della paradossale situazione in materia (con l’occhio di divertita superiorità di certa cultura laicista tanto radical-chic e non certo con i sentimenti di chi è costretto a sopportarsi in casa tali nefandezze da decenni), in cui si additavano gli scempi più evidenti consumati non solo a livello di musiche, ma anche – e soprattutto – di testi (soltanto un cucchiaio nel mare magnum non contenibile nella brevità di un pezzo giornalistico, se non piuttosto in un catalogo al cui confronto quello di Leporello, nel Don Giovanni di Mozart, è una devota giaculatoria!), faceva luogo una sorta di laudatio dell’operato della CEI attorno alla musica liturgica, con un elenco di musicisti quali destinatari di future commesse per buona musica del futuro, tutti però, a mio avviso, legati ad un periodo (il trentennio che parte dai primi Anni Settanta e arriva a fine Anni Novanta) e ad uno stile non proprio felice della produzione italiana in materia, che ha pur visto altri musicisti, certamente meno orientati verso un assemblearismo a tutti i costi, scrivere dignitosamente per la Liturgia rinnovata, rifacendosi maggiormente alle radici gregoriane del canto sacro e alla tradizione alta della musica liturgica.
L’argomento ha toccato anche il fatidico Repertorio Nazionale dei canti, collazionato dall’Ufficio Liturgico Nazionale: diceva nell’articolo il responsabile CEI della musica liturgica – giustamente – che non basta stampare un repertorio per ottenere qualcosa, nella attuale situazione. Pare lecito chiedersi, allora, perché sia stato nuovamente pubblicato, dopo due esperienze sostanzialmente fallimentari in trent’anni.
Il tasto della formazione, pur toccato nel pezzo, è un argomento troppo doloroso: come lo si sarebbe affrontato in Italia? Fondamentalmente con i corsi del Co.per.li.m. (“Corso di perfezionamento liturgico-musicale”) i cui programmi sembrano francamente insufficienti a preparare i giovani “animatori” (parola bruttissima) che li hanno frequentati – pochi rispetto all’esercito che invade le nostre parrocchie – e men che mai i seminaristi, autorizzati peraltro ufficialmente da alcuni anni a studiare in seminario un quartum genus di musica liturgica, ovvero la c.d. musica giovanile, mai previsto dal Magistero, da S. Agostino all’Istruzione Musicam sacram, oltre i generi noti da sempre (gregoriano, polifonia, canto popolare).
Per il resto ben poco, anzi, con perduranti criteri di pastoralismo oltre misura, de facto si continua ad ammettere di tutto, in assenza di una diffusa civiltà di rispetto ontologico e giuridico per la Liturgia cattolica, mantenendosi tuttora su posizioni alquanto attardate, rispetto alle indicazioni del S. Padre. Lo dimostra l’intervento di mons. De Gregorio, attuale consulente della CEI, ospitato su Repubblica: affermare, a proposito di un “allosauro” (ovvero un mostro ormai antidiluviano di provenienza extra-liturgica) quale la famigerata “Messa beat” di Marcello Giombini che «…fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni…» dopo oltre quarant’anni di sfacelo, getta nello sconforto. Questo è Sessantotto liturgico di maniera, punto e basta.
È dunque auspicabile che i responsabili della materia rileggano la salutare polemica seguita allo Stabat Mater di Rossini, circa le musiche, pur esteticamente ammirevoli, ma inadatte al rito. Ma qui, per giunta, parliamo di Giombini e non di Rossini…
L’articolo dell’Osservatore Romano, ovvero l’organo di stampa della Santa Sede (e non il foglietto di una parrocchia di provincia) non fa cenno ad un criterio certo e fondante per scegliere la musica per la liturgia, ovvero il Magistero della Chiesa, che sovrabbonda di indicazioni, argomenti, direttive (perlopiù inascoltate) dall’alto Medioevo fino al Beato Giovanni Paolo II. Senza contare i suggerimenti di Benedetto XVI. Invece: una serie di possibilismi e di argomentazioni ancor più relativistiche!
Ci si augura che la critica musicale dell’Osservatore Romano, che pur ebbe la benemerita e lucida fermezza tempo addietro di non accodarsi al qualunquistico peana di approvazioni per le composizioni di Giovanni Allevi, abbia il coraggio di smascherare i tanti, troppi “Giovanni Allevi” della musica liturgica, che infestano le chiese italiane e mortificano i nostri riti in maniera così desolante.
IL TIMONE N. 106 – ANNO XIII – Settembre/Ottobre 2011 – pag. 47
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