La pretesa di far riconoscere ufficialmente le nozze fra omosessuali, cosiddette nozze-gay, non è nuova nella storia: la introdusse Nerone con due casi clamorosi, che scandalizzarono i pagani, che pure erano certamente più indulgenti degli ebrei e dei cristiani nei riguardi dei rapporti fra omosessuali. Il primo di questi casi riguardò il liberto (forse guardia del corpo) Pitagora, del quale l'imperatore si presentò come moglie, il secondo riguardò un fanciullo (Dione dice paida), Sporo, che egli fece castrare e del quale si proclamò marito.
Fonti per questi episodi sono Tacito, Svetonio e Dione: Tacito (Ann. XV 37,8-9) sotto il 64 d.C., immediatamente prima dell'incendio di Roma, parla del caso di Pitagora, «uno di quel branco di debosciati» (ex iIIo contaminatorum grege).
L'imperatore – dice Tacito – macchiato ormai da ogni piacere illecito, non rinunciò a toccare l'ultimo grado della corruzione e sposò in modo solenne (in modum sollemnium coniugiorum) Pitagora; si mise in testa il velo nuziale (il fIammeum), fece venire i testimoni; dote, talamo, fiaccole nuziali furono come per una donna. Svetonio (Nero 28,1-2 e 29,1) ricorda le nozze solenni di Nerone con Sporo «ornato con i vestiti delle Auguste», cum dote et fIammeo, e riferisce anche la battuta scherzosa e non stupida di un tale (non inscitus iocus), secondo il quale sarebbe stata una fortuna, per l'umanità, se anche il padre di Nerone, Domizio, avesse avuto una tale moglie. Oltre a Sporo, egli ricorda anche il liberto Doriforo (il termine in greco, significa "guardia del corpo" e questo rende possibile che Doriforo e Pitagora fossero la stessa persona) col quale egli si maritò, gettando grida come una vergine che subisce violenza. Svetonio riferisce poi la testimonianza di contemporanei, secondo i quali Nerone affermava che nessuno era pudico fra gli uomini, ma la maggior parte di essi dissimulava il vizio (dissimulare vitium) e lo nascondeva astutamente; egli prometteva pertanto il perdono da ogni colpa a chi avesse apertamente confessato davanti a lui la propria oscenità.
Dione (LXII 27, e poi ancora LXIII 12; 13; 22; 27; 28), che scrive nell'età dei Severi, ma attinge probabilmente, per questa parte delle sue storie, al contemporaneo di Nerone Plinio il Vecchio, parla sia di Pitagora che di Sporo ed è il più ricco di particolari. Dopo aver parlato della morte di Poppea Sabina, la moglie di Nerone, dice che l'imperatore fece castrare Sporo perché assomigliava a Sabina e lo sposò, sebbene si fosse già maritato con Pitagora, e che le nozze furono festeggiate pubblicamente a Roma e in altre comunità. Egli aggiunge anche che uno di quelli che si trovavano con lui e che era preparato in filosofia, interrogato se approvasse quelle nozze, rispose: «Fai bene Cesare a convivere con mogli come queste; volesse il cielo che anche tuo padre avesse convissuto con questo tipo di moglie» (LXII 28, 2-3). Più tardi, sotto il 67, parlando del viaggio di Nerone in Grecia, nel quale Sporo lo aveva accompagnato, assistito da Calvia Crispinilla che, per provvedere al suo vestiario, spogliava gli altri dei loro beni, riferisce che Nerone teneva con sé contemporaneamente Sparo e Pitagora e che i Greci, adulandolo, arrivarono ad augurargli figli legittimi (LXIII 12 e 13). Di Sporo parlava anche Vindice, nel suo proclama ufficiale contro Nerone dalla Gallia (ib. 22,4) nel 68, e di Sporo torna a parlare Dione subito dopo, al momento della fuga di Nerone e del suo suicidio (ib. 27,3 e 28,3), quando il Senato lo aveva ormai dichiarato nemico pubblico ed aveva proclamato Gaiba imperatore.
Mi sono soffermata sul racconto che le nostre fonti, tutte dipendenti da autori contemporanei e da discorsi ufficiali (il proclama di Vindice con cui ebbe inizio la ribellione contro Nerone), danno delle sue "nozze-gay" perché esso rivela, senza possibilità di equivoci, la condanna decisa e inappellabile che il paganesimo classico, pur tollerante dei rapporti omosessuali, dava della pretesa di teorizzarne con gesti pubblici la legittimità: certi rapporti restavano per i Romani, come per lo stesso Nerone, secondo la frase che Svetonio dice risalente alla testimonianza di gente che l'aveva ascoltata con le proprie orecchie, un vitium da dissimulare, non un diritto da esercitare apertamente. Alla radice di questo atteggiamento c'è il riconoscimento, comune al mondo greco e romano, della legge naturale, per la quale solo da un matrimonio fra un uomo e una donna possono nascere dei figli, funzione principale, secondo natura, delle nozze: di qui lo scherno per l'adulazione dei Greci e la scherzosa battuta del filosofo, che insidiosamente interrogato dall'imperatore, rispose che Nerone aveva fatto bene e che sarebbe stato un bene an che per l'umanità se suo padre avesse fatto lo stesso: in questo modo, infatti, egli non sarebbe nato.
Peccato che l'Europa, che ha rinnegato le sue radici cristiane, abbia rinnegato anche le sue radici greche e romane, sulle quali, come sul Cristianesimo, la nostra civiltà è fondata. Il rinnegamento della storia gioca dei brutti scherzi e fa sì che si accusi come una scelta "confessionale" quello che la natura umana non permette di mutare e che la coscienza civile, anche prima e al di fuori del Cristianesimo, ha ritenuto sempre una colpa contro natura, o, se vogliamo usare un linguaggio "politicamente scorretto", ma usato anch'esso, prima che dai Cristiani dai pagani di Roma, un peccato. Proprio per una colpa di natura sessuale, lo stupro inflitto da Sesto Tarquinio a Lucrezia, il termine è usato da Livio a proposito della risposta che il marito e il padre danno alla donna offesa da una macchia a cui era stata costrettg (Liv. I 58, 9): mentem peccare non corpus et unde consilium afuerit, culpam non esse (È la volontà che pecca, non il corpo, e dove non c'è intenzione non c'è colpa). Oh gran bontà dei pagani antichi e dei nostri maiores, assurdamente rinnegati!
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