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11.12.2024

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Nuova ed eterna alleanza
31 Gennaio 2014

Nuova ed eterna alleanza

 


«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (Ger 31,31-34)

«Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa» (Eb 9,15)

Nel Dialogo della Divina Provvidenza s. Caterina da Siena ricorre ad una famosa immagine per descrivere Gesù Cristo e la sua opera di redenzione, quella del “ponte”. La distanza che separa l’uomo da Dio è infinita, già di suo invalicabile. Essa è stata resa – per così dire – ancora più invalicabile dal peccato, questo misterioso abisso fatto di ributtante oscurità e irrazionalità che separa irrimediabilmente l’uomo peccatore dalla santità di Dio. “Santo” infatti vuol dire letteralmente “separato”, “diverso”, “lontano”. La provvidenza amorosa di Dio Padre ha costruito, per opera dello Spirito Santo, nell’umanità del Figlio incarnato e mediante il suo sacrificio redentore e la sua resurrezione un ponte indistruttibile: chi accetta di “passare” (Pasqua vuol dire passaggio) per questo ponte è salvo.
Questa immagine, questo simbolo, ci aiuta a capire il significato profondo di un termine chiave della Bibbia: quello di Alleanza. Il termine ebraico berit non è tradotto in greco – in quella che può essere considerata la prima “traduzione” della storia della letteratura, cioè la traduzione greca detta dei Settanta (LXX) – con quello che sembrerebbe il vocabolo più appropriato, cioè synthèke, “patto, alleanza”, ma con diathèke, cioè “testamento”. Si è voluto così mettere in luce che non si tratta di un rapporto paritario, ma di una decisione, di un dono libero e gratuito da parte di uno dei due contraenti, cioè di Dio, e che questo dono implica la morte del donatore («senza spargimento di sangue non esiste perdono»). L’immagine del ponte rende bene il concetto: il ponte l’ha costruito Dio, mettendo in gioco se stesso, donando la sua stessa vita; proprio per questo è un ponte letteralmente indistruttibile e quindi “eterno”. Le parole che il sacerdote pronuncia sul calice del vino al momento della consacrazione mettono insieme i due aggettivi “nuovo” ed “eterno”: «Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza (Testamenti in latino)». L’“alleanza” è il concetto chiave di tutto l’Antico Testamento. Dio vuole stabilire un’alleanza con il suo popolo. Purtroppo, a causa dell’infedeltà dei figli di Abramo essa è fragile e continuamente da ricostruire: tutta la storia di Israele è lì per testimoniarlo. Tuttavia – pur nella sua terribile fragilità – essa permane e, in quanto fondata sulla promessa divina, destinata a rimanere e a farsi definitiva «[…] l’Antica Alleanza non è mai stata revocata» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 121). È per questo che l’avvento della Nuova Alleanza (o Testamento) in Cristo non distrugge l’Antica ma la compie; «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). «Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire».
L’Antica Alleanza non si è dissolta nella seconda, ma si è “compiuta” e quello che rimane di essa nel popolo di Israele continua ad essere chiamato al compimento. Per questo il rabbino Israel Zolli, che divenne cristiano nel 1945, non diceva di essersi “convertito”, ma di essere “arrivato”.
In Cristo il ponte c’è già, non è da costruire o da ricostruire. Non c’è perché noi, che stiamo camminandovi sopra, siamo bravi, certamente non perché siamo più bravi del popolo dell’Antica Alleanza, ma perché l’ha costruito Dio nel Figlio suo. Il ponte c’è anche se noi non crediamo, ma non diventa salvezza per noi se noi non lo percorriamo credendo nel Figlio di Dio morto e risorto per noi con una fede viva, cioè « operosa per mezzo della carità » (Gal 5,6).
Camminare sul ponte vuol dire percorrere una vita ad immagine e somiglianza di quella del Figlio di Dio, cioè – in fondo, a modo nostro – la stessa vita di Gesù, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) e quindi una vita con la croce portata per amore.
Non è un ponte lontano e irraggiungibile, perché, pur essendo definitivo, è reso continuamente presente tutte le volte che è celebrata una Messa: è reso presente per noi, perché percorrendolo passiamo dalla terra al cielo. Questa è infatti la liturgia: il cielo sulla terra, perché dalla terra si possa finalmente raggiungere il cielo. Ciascuno di noi se cammina su questo ponte, diventa in qualche modo ponte anche per gli altri, perché il Signore Gesù, che è il vero ponte, si fa presente nella nostra vita in modo che chi ha a che fare con noi lo possa incontrare.

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 60

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