Pochi conoscono la vergogna degli assassinii di massa sul confine orientale al termine della Seconda guerra mondiale. E la tragedia dell’esodo e dell’esilio dei nostri connazionali, avversati dal Pci
Infoibati ed esiliati
I primi a finire in foiba furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari della RSI, la Repubblica sociale italiana, che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).
Soltanto a Trieste, dal 1° maggio al 12 giugno, nei tragici 40 giorni in cui l’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda), una componente dei servizi segreti jugoslavi, fu libera di fare irruzione nelle case e trascinare via la gente, furono arrestate 17mila persone, delle quali 8mila verranno rilasciate dopo qualche maltrattamento (e molti dopo aver pagato ingenti somme), 6mila furono internate (e circa la metà morirono di stenti e torture nei Lager sloveni e croati), 3mila furono subito gettate nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. A Fiume, l’orrore fu tale che la città si spopolò. Interi nuclei familiari raggiunsero l’Italia ben prima che si concludessero le vicende della Conferenza della pace di Parigi, alla quale – come dichiarò Churchill – erano legate le sorti dell’Istria e della Venezia Giulia. Entro la fine del 1946, 20mila persone avevano lasciato la città.
Identica sorte attendeva Pola. Anche qui il presidio tedesco decise di resistere fino all’arrivo degli inglesi dell’VIII Armata. Ma gli inglesi si erano fermati a Trieste: cercare di avanzare lungo la costa istriana avrebbe significato rischiare lo scontro armato con gli jugoslavi e, subito dopo, con i russi che stavano a guardare dietro le linee. Così, il giorno 9 maggio, l’ammiraglio tedesco Waue si arrese al IX Korpus. Immediatamente dopo, in omaggio alla più classica etica militare comunista, fu messo al muro e fucilato con il suo stato maggiore e una decina di ufficiali e marò italiani della X MAS.
Il Pci, in esecuzione degli ordini arrivati da Mosca, si era dichiarato pienamente solidale con Tito concordando con la richiesta del capo jugoslavo di annettersi l’Istria e la Venezia Giulia, compresa ovviamente Trieste. I capi comunisti triestini Luigi Frausin e Vincenzo Gigante, non disponibili ad assecondare le richieste di Tito, erano stati fatti cadere, con una spiata, nelle mani della Gestapo.
È durante il periodo bellico 1944-45 (periodo che segna la definitiva perdita, per l’Italia, di Zara e della Dalmazia), che la popolazione di ceppo italiano incomincia seriamente a pensare all’esodo. Pensa, cioè, che, se vinceranno gli jugoslavi, sarà meglio scappare per non andare incontro a un genocidio di proporzioni bibliche. I più compromessi con il fascismo sono già scappati nei primi mesi del 1945.
Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluderà con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947, a Parigi, nel salone dell’orologio del Quai d’Orsay. L’Italia è sola. Dall’altra parte del tavolo stanno i rappresentanti di 21 nazioni, i vincitori della Seconda Guerra mondiale. Di qua, a rappresentare i vinti, gl’italiani, sta l’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna. De Gasperi non è andato. Ha inghiottito la sua dose di fiele durante le riunioni alla conferenza della pace (agostoottobre 1946), quando Molotov, il ministro degli Esteri sovietico, leggendo un discorso scrittogli da Palmiro Togliatti, ha affermato che l’Istria e la Venezia Giulia «sono terre e popolazioni slave e non italiane». E quando ha dovuto interrompere Andrej Vischinskij, il giudice-boia di Stalin, altro rappresentante dell’Urss alla Conferenza, che stava sostenendo come Trieste fosse stata fondata dagli slavi. «Non dagli slavi, dai romani», ha fatto rilevare De Gasperi. E Vischinskij: «Gli italiani assomigliano ai romani come un asino assomiglia a un leone».
Per tutta la durata della Conferenza, il Pci, che pure in Italia è forza di governo, esercita un’azione contraria agl’interessi italiani e favorevole a quelli jugoslavi. De Gasperi potrebbe certamente ottenere di più se avesse dietro di sé l’unità di tutto il popolo. Ma i comunisti lo tradiscono, e di questo tradimento raccolgono i frutti Tito e la Russia. Il comunista Emilio Sereni, che ricopre la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finiscono tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne sono non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall’altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentono prima di tutto italiani), minimizza e falsifica i dati. Rifiuta di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’è più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parla di «fratellanza italo-slovena e italo-croata », sostiene la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, afferma che le notizie sulle foibe sono «propaganda reazionaria». Il trattato di pace ha regalato alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate, con il diritto a Belgrado di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, che dovranno venire indennizzati dal governo di Roma. I sopravvissuti, e i loro eredi, attendono invano ormai da 64 anni.
Oggi, sarebbe bene portare a termine i processi postumi che furono avviati contro gli infoibatori e gli altri assassini, da Oskar Piskulic in poi. E invece sono stati tutti arenati, dopo che fu tolta al magistrato Giuseppe Pititto l’indagine scottante. Per non parlare delle pensioni che vengono ancora versate dallo Stato italiano agli infoibatori, dopo il trattato di Osimo del 1975. Viceversa, le famiglie degli infoibati e dei profughi aspettano ancora giustizia e non hanno ricevuto alcun risarcimento.
IL TIMONE N. 103 – ANNO XIII – Maggio 2011 – pag. 26 – 27
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