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13.12.2024

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O la foiba o l’esilio
31 Gennaio 2014

O la foiba o l’esilio


 

 

 

Pochi conoscono la vergogna degli assassinii di massa sul confine orientale al termine della Seconda guerra mondiale. E la tragedia dell’esodo e dell’esilio dei nostri connazionali, avversati dal Pci
 

 
 
Anche quest’anno, in occasione del Giorno del Ricordo, proclamato ogni 10 febbraio in omaggio degli oltre 20mila morti, gettati vivi nelle foibe del Carso e dell’Istria, e dei 350mila italiani costretti all’esilio, non sono mancate le polemiche. Scarsa la partecipazione delle autorità alle varie manifestazioni (S. Messe, riunioni, convegni promossi dalle associazioni dei reduci), l’evento è passato praticamente sotto silenzio nella grande stampa e sulle televisioni.

Il dopoguerra sul confine orientale

Per inquadrare storicamente l’evento di cui ci stiamo occupando, è opportuno ricordare che al summit di Yalta fra le tre potenze che stavano per vincere la Seconda Guerra mondiale (febbraio 1945), la sorte dell’Istria e della Venezia Giulia era rimasta sfumata. La matita di Stalin, nel tracciare la linea di demarcazione tra le due zone d’influenza, occidentale e sovietica, in Europa, si era fermata all’Austria. Invano Churchill (e poi Eden, nei suoi incontri con i colleghi ministri degli Esteri americano, Stettinius, e sovietico, Molotov) aveva sollecitato chiarezza. Nessuna soddisfazione. Sia Roosevelt sia Stettinius, se non erano disposti ad avallare la pretesa sovietica di togliere all’Italia, oltre alla Dalmazia e all’Istria, l’intera Venezia Giulia fino all’Isonzo, non erano neppure preparati al braccio di ferro. Per gli americani, era ancora il tempo dell’eroica Armata Rossa che liberava l’Europa dal giogo nazista.
Ebbe inizio così, tra gl’inglesi dell’VIII Armata (punta avanzata il XIII Corpo) e gli jugoslavi della IV Armata (punta avanzata il IX Korpus), una vera e propria gara di velocità a chi arrivava primo. Si sa come finì. La corsa la vinse il IX Korpus che già il 20 aprile 1945, mentre ancora gl’inglesi combattevano sull’Appennino, raggiunse i confini della Venezia Giulia, prese Fiume e tutta l’Istria interna. Pur di mettere gl’inglesi di fronte al fatto compiuto, Tito pose addirittura in secondo piano la liberazione delle due capitali jugoslave Zagabria e Lubiana, che difatti resteranno ancora per più d’una settimana in mano ai tedeschi.
Il boccone più ghiotto era ovviamente Trieste. E qui Tito si spuntò le unghie. Infatti, al termine di una entusiasmante galoppata, della cui posta in gioco i suoi componenti erano peraltro tutti perfettamente consapevoli, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe di Cassino, entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero a Freyberg il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere che aveva «preso» Trieste. La rabbia degli uomini di Tito e dei loro complici comunisti italiani si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari in Russia del periodo 1917-1919.
Fin dall’ottobre 1945 il governo De Gasperi presentò agli alleati «una lista di nomi di 2500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7500 il numero degli scomparsi ».
In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati superò i ventimila.

Infoibati ed esiliati
I primi a finire in foiba furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari della RSI, la Repubblica sociale italiana, che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).
Soltanto a Trieste, dal 1° maggio al 12 giugno, nei tragici 40 giorni in cui l’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda), una componente dei servizi segreti jugoslavi, fu libera di fare irruzione nelle case e trascinare via la gente, furono arrestate 17mila persone, delle quali 8mila verranno rilasciate dopo qualche maltrattamento (e molti dopo aver pagato ingenti somme), 6mila furono internate (e circa la metà morirono di stenti e torture nei Lager sloveni e croati), 3mila furono subito gettate nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. A Fiume, l’orrore fu tale che la città si spopolò. Interi nuclei familiari raggiunsero l’Italia ben prima che si concludessero le vicende della Conferenza della pace di Parigi, alla quale – come dichiarò Churchill – erano legate le sorti dell’Istria e della Venezia Giulia. Entro la fine del 1946, 20mila persone avevano lasciato la città.
Identica sorte attendeva Pola. Anche qui il presidio tedesco decise di resistere fino all’arrivo degli inglesi dell’VIII Armata. Ma gli inglesi si erano fermati a Trieste: cercare di avanzare lungo la costa istriana avrebbe significato rischiare lo scontro armato con gli jugoslavi e, subito dopo, con i russi che stavano a guardare dietro le linee. Così, il giorno 9 maggio, l’ammiraglio tedesco Waue si arrese al IX Korpus. Immediatamente dopo, in omaggio alla più classica etica militare comunista, fu messo al muro e fucilato con il suo stato maggiore e una decina di ufficiali e marò italiani della X MAS.
Il Pci, in esecuzione degli ordini arrivati da Mosca, si era dichiarato pienamente solidale con Tito concordando con la richiesta del capo jugoslavo di annettersi l’Istria e la Venezia Giulia, compresa ovviamente Trieste. I capi comunisti triestini Luigi Frausin e Vincenzo Gigante, non disponibili ad assecondare le richieste di Tito, erano stati fatti cadere, con una spiata, nelle mani della Gestapo.
È durante il periodo bellico 1944-45 (periodo che segna la definitiva perdita, per l’Italia, di Zara e della Dalmazia), che la popolazione di ceppo italiano incomincia seriamente a pensare all’esodo. Pensa, cioè, che, se vinceranno gli jugoslavi, sarà meglio scappare per non andare incontro a un genocidio di proporzioni bibliche. I più compromessi con il fascismo sono già scappati nei primi mesi del 1945.
Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluderà con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947, a Parigi, nel salone dell’orologio del Quai d’Orsay. L’Italia è sola. Dall’altra parte del tavolo stanno i rappresentanti di 21 nazioni, i vincitori della Seconda Guerra mondiale. Di qua, a rappresentare i vinti, gl’italiani, sta l’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna. De Gasperi non è andato. Ha inghiottito la sua dose di fiele durante le riunioni alla conferenza della pace (agostoottobre 1946), quando Molotov, il ministro degli Esteri sovietico, leggendo un discorso scrittogli da Palmiro Togliatti, ha affermato che l’Istria e la Venezia Giulia «sono terre e popolazioni slave e non italiane». E quando ha dovuto interrompere Andrej Vischinskij, il giudice-boia di Stalin, altro rappresentante dell’Urss alla Conferenza, che stava sostenendo come Trieste fosse stata fondata dagli slavi. «Non dagli slavi, dai romani», ha fatto rilevare De Gasperi. E Vischinskij: «Gli italiani assomigliano ai romani come un asino assomiglia a un leone».
Per tutta la durata della Conferenza, il Pci, che pure in Italia è forza di governo, esercita un’azione contraria agl’interessi italiani e favorevole a quelli jugoslavi. De Gasperi potrebbe certamente ottenere di più se avesse dietro di sé l’unità di tutto il popolo. Ma i comunisti lo tradiscono, e di questo tradimento raccolgono i frutti Tito e la Russia. Il comunista Emilio Sereni, che ricopre la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finiscono tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne sono non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall’altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentono prima di tutto italiani), minimizza e falsifica i dati. Rifiuta di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’è più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parla di «fratellanza italo-slovena e italo-croata », sostiene la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, afferma che le notizie sulle foibe sono «propaganda reazionaria». Il trattato di pace ha regalato alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate, con il diritto a Belgrado di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, che dovranno venire indennizzati dal governo di Roma. I sopravvissuti, e i loro eredi, attendono invano ormai da 64 anni.
Oggi, sarebbe bene portare a termine i processi postumi che furono avviati contro gli infoibatori e gli altri assassini, da Oskar Piskulic in poi. E invece sono stati tutti arenati, dopo che fu tolta al magistrato Giuseppe Pititto l’indagine scottante. Per non parlare delle pensioni che vengono ancora versate dallo Stato italiano agli infoibatori, dopo il trattato di Osimo del 1975. Viceversa, le famiglie degli infoibati e dei profughi aspettano ancora giustizia e non hanno ricevuto alcun risarcimento.

 
 
Per saperne di più…
 
 
Ranieri Ponis, «In odium fidei», Litografia Zenit, 1999.
Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, 2005.
Gianni Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, 2005.
Marco Girardo, Sopravvissuti e dimenticati. Il dramma delle foibe e l’esodo dei giuliano-dalmati, Paoline, 2006.
Giampaolo Pansa, Prigionieri del silenzio. Una storia che la sinistra ha sepolto, Sperling & Kupfer, 2004.
Rossana Mondoni, Sopravvissuto alle foibe, pref. di Luciano Garibaldi, Solfanelli, 2009. Raoul Pupo – Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, 2003.
Pier Luigi Pallante, La tragedia delle foibe, Editori Riuniti, 2006.
 
 
 
 
 

IL TIMONE  N. 103 – ANNO XIII – Maggio 2011 – pag. 26 – 27

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