Un documento di Paolo VI del 1975 alla base dell’insegnamento di papa Francesco. L’apostolato missionario, un compito per tutti i battezzati. Le difficoltà di molti cattolici nel cambiare le abitudini pastorali. La piena concordanza del Magistero dell’arcivescovo di Milano
«Perché là dove è più forte l’influsso della secolarizzazione, le comunità cristiane sappiano promuovere efficacemente una nuova evangelizzazione ».
Questa è l’intenzione di preghiera affidata da papa Francesco all’Apostolato della preghiera per il mese di giugno. Essa esprime una caratteristica centrale del pontificato, verso la quale il Santo Padre sembra orientare le priorità della propria azione pastorale. Del resto, il Magistero dei Papi ormai da decenni privilegia come assolutamente importante l’evangelizzazione, poi diventata “nuova” nel senso di “seconda”, successiva alla “prima” che costruì la cristianità medievale e al processo di secolarizzazione attivo in Europa dai tempi della Riforma e della Rivoluzione francese.
Diventare missionari
Il Magistero va in questa direzione almeno dal 1975, quando il venerabile Paolo VI, al termine dell’Anno Santo, pubblicò l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, un documento importante e completamente dedicato all’evangelizzazione, che fra l’altro tiene conto delle richieste dei vescovi riuniti in un Sinodo dell’anno precedente appunto dedicato allo stesso tema.
Oggi, quasi 40 anni dopo quel documento, la Chiesa in Italia fa ancora fatica ad accogliere quelle indicazioni, anche se diversi movimenti e associazioni sono sorti nel frattempo con una precisa indicazione missionaria riferita proprio all’Evangelii nuntiandi, come per esempio le Sentinelle del mattino. Si tratta, infatti, di cambiare atteggiamento, di scegliere un’impostazione che metta al primo posto l’evangelizzazione e quindi il dovere missionario della Chiesa e del battezzato. Non è facile, perche si tratta di sradicare antiche abitudini, comprensibili almeno in quelle zone pastorali, come sono ancora alcune regioni italiane, dove rimane il conforto dei numeri, cioè dove vi è ancora un discreto numero di fedeli, seppure una minoranza, che partecipa alla vita delle parrocchie. Si tratta insomma di “fare una fatica”, come ho potuto ascoltare in un’omelia molto sincera di un parroco milanese, poche settimane fa. Si tratta di incitare e addestrare alla missione quei fedeli che ancora frequentano le parrocchie, di prepararli dottrinalmente con l’uso sistematico del Catechismo e di formarli anche culturalmente, affinché possano intervenire con un giudizio che nasce dalla fede sui principali avvenimenti pubblici. Spesso, quando si presenta questo progetto ai fedeli di una parrocchia, si può vedere una reazione di smarrimento e di incomprensione, perché per loro la vita abitudinaria nella comunità era diventata la regola, il modo normale di vivere la fede.
Si tratta poi di andare a cercare la grande maggioranza delle persone che non frequentano la chiesa, e di avviare un dialogo missionario con coloro che professano un’altra religione, ormai numerosi nelle nostre città. E, ancora, si tratta di fare tutto questo con l’entusiasmo che nasce dalla preghiera, soprattutto contemplativa e silenziosa, come avviene nelle sempre più diffuse ore di adorazione eucaristica.
Tutto questo è scritto con precisione in quel documento del 1975, che non ha perso di attualità. Papa Francesco lo ha ricordato nell’Udienza del 22 maggio, citandolo più volte. E si richiama ad esso, indirettamente, tutte le volte in cui in questi primi mesi di pontificato ha invitato la Chiesa a uscire da se stessa, anche rischiando, per rivolgersi alle “periferie esistenziali”, cioè a quegli uomini poveri soprattutto perché privi della fede.
Molti di noi non siamo abituati a questo genere di apostolato. Si tratta di “metterci la faccia”, di superare il rispetto umano, di andare incontro a polemiche, di suscitare contrasti, di doversi preparare studiando e pregando, di incontrare sicuramente incomprensioni, a volte persecuzioni. Si tratta, in prospettiva, di ripensare il rapporto con l’autorità politica e con le principali istituzioni pubbliche, perché una Chiesa missionaria impegnata in una nuova evangelizzazione parte da un giudizio critico sulla situazione storica e non può avere eccessive compromissioni con i poteri del proprio tempo, se vuole essere veramente libera di predicare quello che ritiene necessario per la salus animarum.
Le parole del card. Scola
Parole simili a quelle del Papa sono state pronunciate nel Duomo di Milano la mattina del 28 maggio dall’arcivescovo Angelo Scola, davanti a oltre 1700 sacerdoti ambrosiani. Il card. Scola ha annunciato la prossima lettera pastorale che sarà incentrata su una missione a 360 gradi (“il campo è il mondo”), nella quale la testimonianza non consista soltanto nel dare il buon esempio, ma nel riconoscere la realtà e nel comunicare la verità, la bellezza e la bontà di Cristo. In questa “dilatazione missionaria” devono essere coinvolte tutte le realtà diocesane, dai preti ai laici, dalle parrocchie alle associazioni e ai movimenti.
L’esortazione apostolica di Paolo VI
Ma che cosa trasmette questo documento del Magistero di Paolo VI? Esso nasce, per usare le parole di papa Montini, «per dare una risposta valida alle esigenze del Concilio» che erano di conservare un «patrimonio di fede che la Chiesa ha il dovere di preservare nella sua purezza intangibile », «ma anche di presentare agli uomini del nostro tempo, per quanto possibile, in modo comprensibile e persuasivo» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 3).
Il 1975 era un’epoca particolarmente difficile per la Chiesa, colpita dalla contestazione interna soprattutto dopo l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI del 1968, e preoccupata dall’aggressività ancora evidente dell’imperialismo sovietico, che in quell’anno conquistava anche il Vietnam. Eppure, la Chiesa non ripiegò su se stessa, ma rilanciò con vigore il proprio impegno all’apostolato: «la presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile. Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti. È in causa la salvezza degli uomini. Esso rappresenta la bellezza della rivelazione. Comporta una saggezza che non è di questo mondo. È capace di suscitare, per se stesso, la fede, una fede che poggia sulla potenza di Dio. Esso è la Verità. Merita che l’Apostolo vi consacri tutto il suo tempo, tutte le sue energie, e vi sacrifichi, se necessario, la propria vita» (Evangelii nuntiandi, 5).
Le parole del Papa sono inequivocabili. Chi le capì comprese anche che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la Buona Novella non è proclamata» (Evangelii nuntiandi, 20). Associazioni, movimenti, alcuni singoli cattolici compresero il messaggio e si sforzarono di non nascondere l’identità cattolica di fronte a un mondo ostile o almeno indifferente. Eppure, ancora oggi molto rimane da fare e soprattutto da comprendere.
Naturalmente Paolo VI sapeva che prima dell’insegnamento vengono le persone e la testimonianza della vita: «Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda» (Evangelii nuntiandi, 76).
Sapeva cioè, e lo dirà ripetutamente, che soltanto i santi possono salvare il mondo storico in cui siamo chiamati a vivere.
Ricorda
Paolo VI, Esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, www.vatican.va
Papa Francesco, Udienza generale del 22 maggio 2013, www.vatican.va
Marco Invernizzi, in Il Timone, n.96/2010, n.111/2012, n.118/2012.
IL TIMONE N. 125 – ANNO XV – Luglio/Agosto 2013 – pag. 58 – 59
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