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13.12.2024

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Osare nel suo nome

Osare nel suo nome



Che cosa succede alla nostra fede? Perché non siamo capaci di ottenere da Dio quei miracoli che Pietro e gli Apostoli compivano in Suo nome? Eppure, uniti strettamente a Lui, possiamo diventare anche noi strumenti efficaci di grazia e di guarigione

Permettetemi di iniziare con una confidenza, rivelandovi un piccolo trucco, quello al quale ricorro quando capisco di aver bisogno di una “scossa”. Esso consiste semplicemente nel mettermi a rileggere gli Atti degli Apostoli. Iniziando, per esempio, da un brano come questo: «In quei giorni Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita, e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta “Bella” a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: “Guarda verso di noi”. Ed egli si volse verso di loro aspettando di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” e presolo per la destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le sue caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, camminava; ed entrò nel tempio con loro camminando, saltando e lodando Dio» (At 3,1-10).
Si tratta, come si vede, del racconto del primo dei miracoli operato da Gesù tramite la fede dei suoi apostoli e discepoli. Ma non è affatto l’unico, come è possibile leggere anche in At 5,12; 5,16; 8,6; 9,34; 9,40.
Ma ogni volta che rileggo queste pagine mi pongo anche inevitabilmente una domanda: perché oggi non succedono più queste cose? Perché siamo così umili da non osare chiedere tanto a Gesù, oppure perché dopo duemila anni di cristianesimo la nostra fede ha perso vigore, facendosi ancor più piccola di quel granello di senape che pure, parola di Gesù, sarebbe in grado di spostare una montagna? Io temo che, almeno per me, si tratti di questa seconda ipotesi, cioè del segreto timore che nulla avverrebbe e che, dunque, quella che mi appare piuttosto come una provocazione finirebbe per essere più controproducente che altro.
Allora, forse, è necessario capire meglio come e perché Pietro abbia osato comportarsi in quel modo, ascoltando le sue stesse parole alla folla stupefatta per quanto era accaduto: «Uomini di Israele, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest’uomo? Voi avete ucciso l’autore della vita.
Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni. Proprio per la fede riposta in lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi. Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
Poche e sintetiche parole nelle quali tuttavia tutto è rinchiuso. Apprendiamo così che quel che Pietro ha fatto non è stato frutto di forza propria ma si è compiuto per la fede in Gesù morto e risorto, il cui nome “invocato” ha guarito lo storpio. Guarigione fisica che tuttavia, Pietro lo sottolinea, non si esaurisce in se stessa ma che, come tutte le altre testimoniate nei Vangeli, vuole avere un punto di arrivo: provocare cioè un’altra guarigione ancor più profonda e difficile, quella del cuore.
Una scossa, dunque, dicevo all’inizio. Sì, io credo proprio che rivisitare gli Atti, immergerci nell’atmosfera di questa Chiesa degli inizi che sotto la guida degli apostoli compie i suoi primi passi, non può non darci una mossa. Gli uomini spesso sono incerti e insicuri sul da farsi anche perché i problemi che via via si presentano sono molti, nuovi e complessi. Eppure, da questi primi cristiani emanano una serenità e una vitalità straordinaria, un’audacia, una freschezza e una immediatezza di fede che non può non toccarci e farci riflettere. L’atmosfera che si respira è quella di una fiducia piena e totale in Gesù Salvatore che essi hanno visto morire ma poi anche risorgere. Risurrezione della quale sono pronti a rendere testimonianza fino ad accettare la morte. E, allo stesso tempo, una straordinaria docilità allo Spirito Santo dal quale fin dalla Pentecoste hanno imparato a lasciarsi trasformare e guidare; una coscienza costante di quel soprannaturale nel quale si sentono completamente immersi, con il quale colloquiano in continuazione e alle cui direttive si abbandonano.
Ebbene, io credo che se ciascuno di noi riuscisse a ritrovare anche solo un po’ di quella immediatezza di rapporto con Dio, di quel senso della presenza viva di Gesù tra noi, dell’opera costante del suo Spirito che continuamente lavora per santificare ogni cosa, molti dei problemi che la Chiesa oggi denuncia si risolverebbero e quella nuova evangelizzazione di cui tanto si parla si realizzerebbe facilmente e spontaneamente, senza bisogno di particolari programmazioni o di piani pastorali più o meno complessi. A convincerci di questo, del resto, non servono soltanto le testimonianze presenti negli Atti e che abbiamo citato, ma anche l’intera storia della Chiesa, fino ai nostri giorni. La quale, infatti, ci dimostra che là dove c’è un vero santo, dove cioè c’è qualcuno che vive la fede in modo autentico e profondo, la gente accorre numerosissima da ogni dove e si converte, cioè ottiene la guarigione, talvolta nel corpo, più spesso nel cuore.
Dunque, ciò che fa la differenza tra noi e quei primi apostoli e discepoli, tra noi e i santi che hanno costellato i secoli e che la Chiesa ha innalzato alla gloria degli altari, è la qualità della nostra fede. La quale diventa determinante non solo ai fini di una nostra trasformazione interiore, in quel passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo di cui ci parla Gesù. Ma anche nei confronti dei fratelli, perché una fede vissuta con intensità e davvero intessuta di un amore sempre più profondo e autentico verso Dio inevitabilmente diventa trasmettitrice di grazia e di luce anche nei confronti dell’esterno: delle altre persone ma anche di tutto il creato. Un aspetto che, per esempio in san Francesco d’Assisi, si è fatto esplicito ma che in realtà è sempre presente là dove c’è un vero santo. Cosa del resto comprensibile perché ciò che si verifica e che a noi può apparire tanto straordinario non è altro che l’attuarsi di quella buona novella che Gesù aveva annunciato: la sua incarnazione e la sua morte in croce, seguita dalla sua risurrezione, hanno riaperto i canali della grazia. Così, là dove l’uomo non pone ostacoli a Dio, la redenzione può penetrare con pienezza sempre maggiore attraverso quel Santo Spirito capace di trasformare e vivificare ogni cosa.
Qualità della fede, dicevamo. Certo gli apostoli e i primi discepoli in questo erano sicuramente favoriti perché testimoni oculari degli eventi della salvezza. Anche loro, è vero, avevano tradito e rinnegato Gesù come lo stesso Pietro. Avevano dubitato che tutto fosse vero, come Tommaso. Sono, del resto, i pericoli a cui ci espone quella libertà che è la nostra caratteristica più grande e che Dio stesso ha voluto per noi. Poi, però, c’è stato nella loro vita un evento che li ha trasformati e li ha resi forti come rocce: quella discesa dello Spirito a Pentecoste che li ha resi consapevoli che Dio era davvero con loro e che, attraverso loro, operava nel mondo.
Noi ora, è vero, siamo invece lontani da quegli eventi che videro protagonisti Pietro e i suoi compagni. Tuttavia, i duemila anni di storia trascorsi da allora sono serviti anche a dimostrare sempre meglio come le testimonianze che ci hanno lasciato siano credibili e come dunque su di esse noi possiamo basare con sicurezza la nostra fede. Basarla, ma anche in continuazione rinnovarla, prendendo il loro comportamento come esempio e come incitamento. Perché non dobbiamo dimenticare che anche noi siamo stati uniti a Gesù nel battesimo, unti dal Santo Spirito nella cresima, nutriti di Dio in quella eucaristia che abbiamo sempre a disposizione. E che dunque anche noi possiamo ritrovare vigore uscendo dalle secche pericolose di una fede vista soprattutto come adesione intellettuale a un credo, oppure come rispetto di un sistema di regole o di valori, oppure ancora come accettazione di una sorta di Dio tappabuchi a servizio dei nostri progetti. Perché il cristianesimo non è questo: è invece accettare di incontrare senza difese e barriere interiori quel Dio che in Gesù si è offerto e continuamente si offre a noi; è aprirgli sempre più e sempre meglio il cuore perché egli vi possa prendere dimora; è fare progressivamente esperienza di come, uniti strettamente a lui, possiamo diventare anche noi, come Pietro, strumenti efficaci di grazia e di guarigione.



IL TIMONE N. 125 – ANNO XV – Luglio/Agosto 2013 – pag. 56 – 57

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