L’uccisione del ministro cattolico Shahbaz Bhatti ha portato alla ribalta, oltre alla fede che lo animava, anche la drammatica realtà di un Paese dove il fondamentalismo islamico condiziona e ricatta il mondo politico ed esercita violenza e intimidazione contro i cristiani
«Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù». L’uccisione del ministro cattolico pachistano Shahbaz Bhatti, pur nella tragicità dell’evento, ha avuto almeno il risvolto positivo di averci fatto conoscere la profondità di fede di un uomo e di una comunità, come dimostrano queste parole tratte dal testamento spirituale di Bhatti che, come ministro per le minoranze religiose, aveva rifiutato posti importanti di potere che gli venivano offerti per fargli cessare l’impegno a favore delle minoranze perseguitate. Non solo, ha anche portato all’attenzione dell’opinione pubblica la drammatica – e ignorata – realtà del Pakistan, un paese sempre più condizionato dai movimenti fondamentalisti islamici, che dettano legge a colpi di intimidazione e ricatti. Non a caso infatti, il governo pachistano non aveva mai concesso una scorta a Bhatti malgrado la sua richiesta e l’aumentare di pressioni e minacce.
E prima di Bhatti, per aver cercato di contrastare le pretese fondamentaliste, aveva pagato con la vita il governatore del Punjab, Salman Taseer, musulmano, ucciso il 4 gennaio 2011. E la deputata Sherry Rehman, poco dopo, ha dovuto ritirare l’emendamento proposto per riformare la Legge sulla Blasfemia, sempre a causa delle minacce ricevute. Già, la Legge sulla Blasfemia. Una «menzione particolare tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa» gliel’aveva dedicata anche papa Benedetto XVI nel discorso al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede, lo scorso 10 gennaio, invitando le autorità pakistane «a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose». In effetti, in 25 anni di applicazione questa legge si è rivelata una micidiale arma per soprusi di ogni genere, compresi i regolamenti di conti personali.
Ma che cos’è questa Legge sulla Blasfemia? Anzitutto va ricordato che essa è parte del Codice penale pachistano introdotto dal governo britannico nel 1860, un’aggiunta alla sezione 295 che nelle intenzioni originarie proteggeva i sentimenti religiosi delle diverse comunità. Nel 1927, quando ancora India e Pakistan formavano un unico territorio sotto il controllo britannico e c’erano già stati incidenti, fu aggiunto l’articolo 295-A, che citava espressamente i cittadini del Pakistan come soggetti per cui veniva rafforzata la tutela. Così la sanzione massima per chi violava questa legge (minimo era una multa) saliva da 2 a 10 anni di detenzione. Ma negli anni ’80 il generale golpista Zia ul-Haq nel promuovere l’islamizzazione delle istituzioni pachistane (considerava necessario l’appoggio dei mullah per rafforzare il suo potere), aggiunse due successivi emendamenti alla sezione 295. Nel 1982 il 295-B prevedeva la prigione a vita per chiunque dissacrasse una copia del Corano o la citasse per scopi illegittimi. Ma ai fondamentalisti non bastava ancora, così nel 1986 fu aggiunto il 295-C che prevede l’obbligatorietà della condanna a morte per chiunque usa parole irrispettose nei confronti di Maometto. Non solo, per la prima volta fu introdotta la norma per cui i reati riferiti al 295-C possono essere giudicati soltanto da un giudice islamico. Peraltro bastano due testimoni per confermare l’accusa in giudizio, senza bisogno di indagini volte ad accertare la veridicità dei fatti contestati.
Sebbene alla fine degli anni ’80 si sia restaurato un processo democratico, tutti i governi che si sono succeduti, pur di impostazione laica, non hanno mai rimesso in discussione questa legge. E chi ha provato, vedi gli ultimi casi citati, ci ha rimesso la vita. Il motivo è che la legge, più che con la religione, ha a che fare con il cambiamento del clima socio-politico in Pakistan a conferma che la libertà religiosa è davvero la madre di tutte le libertà e un prezioso indicatore del livello di conflittualità di un paese. La Legge sulla Blasfemia è allo stesso tempo conseguenza e origine di un clima politico-religioso sempre più violento e oppressivo verso le minoranze.
Bisogna ad esempio ricordare che parallelamente alla Legge sulla Blasfemia, il generale Zia ha introdotto nel 1985 l’elettorato separato (un sistema elettorale per cui le minoranze religiose avevano un numero garantito di seggi, ma per il quale, per esempio, i cristiani potevano votare solo candidati cristiani) che ha ulteriormente isolato i cristiani. In precedenza, infatti, i candidati dei vari partiti dovevano comunque tenere conto dell’elettorato non-islamico soprattutto nelle circoscrizioni dove erano concentrati. La separazione ha invece dato mano libera ai politici più radicali.
Tra il 1984 e il 2004 sono state oltre 5mila le denunce di blasfemia e, oltre ai cristiani, hanno riguardato gli Ahmadi (una comunità religiosa che nasce dall’islam ma che viene considerata eretica), gli stessi musulmani e, in misura minore, gli indù che pure sono la minoranza più grossa presente in Pakistan. Non a caso l’86% dei casi sono stati registrati nella provincia del Punjab dove sono concentrati l’81% dei cristiani, che in tutto il Pakistan sono circa 2 milioni, di cui un milione cattolici. Si deve anche ricordare che i fondamentalisti non si accontentano delle condanne, tanto che nel corso di questi anni si sono registrate alcune decine di esecuzioni extra-giudiziali, vale a dire l’assassinio di persone accusate di blasfemia ma il cui giudizio non era stato ancora emesso. E, neanche a dirlo, nessuno ha mai pagato per questi omicidi.
Il caso più famoso e – al momento in cui scriviamo – ancora aperto è quello di Asia Bibi, una contadina cristiana condannata a morte nel 2010 sulla base di accuse risibili, che aveva spinto anche il governatore del Punjab a intervenire in sua difesa richiedendo la grazia al presidente pachistano. In una conferenza stampa tenuta il 20 novembre 2010 dalla prigione in cui Asia Bibi è detenuta – e che gli è costata la vita – il governatore Taseer disse: «In questo Paese il 99% dei cittadini è musulmano e non è possibile che qualcuno insulti il Profeta – qui tutti siamo musulmani – e sono sicuro, avendo studiato bene il suo caso, che non è stato fatto niente di simile. Lei è una povera donna cristiana in condizioni disgraziate. Lei non aveva nemmeno la difesa legale, non aveva la possibilità economica di difendersi». E aggiungeva, Taseer, che tale legge «mette in ridicolo» il pensiero del fondatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, il quale «aveva aggiunto la striscia bianca nella bandiera del Pakistan per rappresentare le minoranze ed era a favore della loro protezione».
IL TIMONE N. 102 – ANNO XIII – Aprile 2011 – pag. 18 – 19