“Il migliore” per i comunisti, vero capo del Partito. Instancabile macchina da lavoro, infaticabile operatore culturale, staliniano di ferro: spese la vita al servizio di una ideologia spietata e crudele.
La vita di Palmiro Togliatti, dal 1893 al 1964, traversò come una meteora triste e tragica il XX secolo che fu chiamato “dalle idee assassine”. Operò in Italia, Francia, Spagna, Germania, Unione Sovietica, come militante e dirigente comunista del Komintern fra i maggiori, estendendo la sua influenza fino al Nuovo Mondo ed all’America Latina, per esempio Cuba. “Uomo solo” per indole e vigilanza cospirativa, fu un intellettuale ottocentesco, in gran parte conservatore ed elitario, letterato che non disdegnava le penne di pavone, polemico, instancabile operatore culturale, infaticabile “macchina da lavoro”, staliniano per convinzione e dottrina, fautore della teoria e della pratica spietata del “socialismo in un paese solo”. Sostenitore verbale del “policentrismo”, ma sempre avvinghiato all’URSS come “casa madre” da un legame di ferro, ebbe influenza nella storia e nella vita sovietica, di cui conobbe e praticò le vicende politico-sociali con raro settarismo. Dominatore di fatto del Partito comunista italiano, segretario dal 1926, combattuto e mai vinto al proprio interno, morì a Yalta sul Mar Nero dove si era recato in agosto, disertando per quell’anno l’amata Val D’Aosta dalle montagne famigliari. A Mosca era andato per perfezionare il complotto, guidato dall’emergente Breznev, contro Krusciov, accusatore giudicato rozzo e inopportuno dei crimini di Stalin, ai quali egli stesso aveva dato mano in Ucraina.
Togliatti era nato a Genova, terzo di quattro figli di una famiglia di funzionari sabaudi di idee monarchiche e di attaccamento ai valori della religione, avendo come parenti un cappellano del santuario di S. Ignazio e una suora salesiana, studente a Sondrio, Sassari e Torino, sempre “in dignitosa povertà”. Nella capitale piemontese si realizza l’incontro con Antonio Gramsci, di due anni più vecchio, sardo anzi irredentista, che usufruisce della stessa borsa di studio che è intestata a re Carlo Alberto. Entrambi, i due giovani borsisti, confermano le proprie inclinazioni socialiste, scelgono di militare nella Sezione territoriale più spiccatamente operaia, di cui sostengono le iniziative di occupazione delle fabbriche, spaziano tra l’adesione alla cultura storica del meridionalista Salvemini sino all’agitazione parolaia e interventista di Mussolini, nella pratica iscrivendosi nella frazione comunista-astensionista influenzata da Amadeo Bordiga. Togliatti viene eletto segretario della Sezione e partecipa alla pubblicazione assieme a Gramsci, Tasca, Terracini della rivista “L’Ordine nuovo” che diviene l’organo di battaglia della tematica rivoluzionaria dei Consigli operai. Si crea così un nucleo intellettuale di alto livello che rompe con la politica ufficiale del socialismo italiano e nel gennaio del 1921 ne provocherà la scissione, dando vita con il Congresso di Livorno al Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale. Il gruppo sembra in superficie compatto, ma esso è in effetti profondamente diviso per questioni di carattere, di preparazione culturale: si scomporrà ben presto, con violenza e rancore dando luogo alla più disastrosa separazione della sinistra operaia, alla più cruenta dispersione e persecuzione degli uni contro gli altri. Togliatti vi appare come il più esperto in lotte di frazione e di potere, incline ad accordarsi con i vincitori; Gramsci invece il più sensibile alle esigenze dell’ideale, della irrinunziabilità della democrazia, del diritto della minoranza a contare. Gramsci dal 1926, benché eletto deputato del Veneto, passerà dieci anni al confino e in carcere; Togliatti farà poco, anzi nulla, per agevolare la liberazione del detenuto; si aggirerà in una prigione volontaria, entusiasticamente accettata e condivisa, degli abusi repressivi del sistema staliniano, vasto come tutto il mondo del “socialismo reale” imposto con la forza, da Mosca a Pechino. A ben guardare, il nocciolo del XX secolo della storia del marxismo vivente e delle sue deformazioni sta in questo amaro contrasto Gramsci-Togliatti e si ingrandisce nella disputa insanguinata che come una febbre tormenta la società, ne esaspera i contrasti, non ne allevia le ingiustizie, le accresce in un cumulo di orrori cui Togliatti partecipa, dall’URSS alla Spagna della guerra civile dal 1936 al 1938.
Quando nel 1926, Ercoli, ossia Togliatti, viene chiamato come membro eminente dell’Esecutivo del Komintern, a restare a Mosca, dalla quale si muoverà per missioni di dirigente d’alto rango, il suo destino si identifica con la tragedia del comunismo mentre il capo sardo viene, lo stesso anno, sottratto alla vita civile e agli affetti umani. Togliatti si incarta nell’ideologia; Gramsci tenta di difendersene e si avvia verso la morte annunziata che avverrà il 27 aprile del 1937, in circostanze per alcuni aspetti oscure. Togliatti percorrerà come a cavallo quasi l’intero secolo fino alla sua seconda metà: senza che un dubbio lo sfiori, un ripensamento lo incrini, la cultura ne faccia vacillare qualche certezza: eroe eponimo nella nomenklatura sovietica del Terrore.
Il 27 aprile del 1944, Ercoli rientra in Italia e si impegna con piglio oggettivamente operoso alla edificazione di un partito non diverso nella sua collocazione internazionale ma più interessato alle vicende nazionali, dalla creazione della repubblica, alla stesura di una Costituzione moderna, partecipando come Ministro sino al 1947 al governo del Paese. Non volle, o meglio non poté, adottare una rivoluzione in Italia, comunque differente per epoca e contenuti da quella russa. Gli accordi fra le grandi potenze vincitrici della guerra gli impedivano di ottenere l’aiuto sovietico ad un rivolgimento violento del nostro Paese, l’Italia essendo esclusa, nella spartizione consensuale, da ogni avventurismo anti-democratico che invece travolse tutto l’Est del mondo. Soprattutto il partito “nuovo” di Togliatti fu battuto nettamente dagli elettori italiani nel 1948 dal 48,5 andato alla Democrazia Cristiana o, meglio, ai Comitati civici. Avendo scelto, anche se con interessate correzioni, il terreno del confronto, il capo comunista su questo terreno venne battuto in campo aperto. E’ una visione forse riduttiva ma certamente ispirata dalla realtà, anche se non vanno taciute, per completezza di giudizio, le due portanti architravi dell’azione politica togliattiana: l’attenzione originale al mondo cattolico e vaticano; la edificazione del partito come operazione di cultura e di produzione editoriale (Einaudi, Feltrinelli, Fondazione Gramsci). In essa si riscontrano le stesse censure, gli analoghi divieti, le strumentalizzazioni di una concezione marxista che fu vincolante ma non vittoriosa.
Di Togliatti si è scritto che fu “uomo di frontiera”. Può darsi. Preferisco fargli posto in qualche girone dell’Inferno di Dante nel quale non stanno gli inetti.
RICORDA
Il 18 aprile e il tracollo della sinistra
“Il Papa [Pio XII, ndr.] aveva già proclamato l’impegno per tutti i cattolici: «Il tempo della riflessione e dei progetti è passato; è l’ora dell’azione. Siete pronti? I Fronti contrari nel campo religioso e morale si vengono sempre più chiaramente delineando: è l’ora della prova. La dura gara di cui parla san Paolo è in corso». Poi nell’inverno immediatamente precedente al fatale aprile elettorale, gettò perentoriamente sul piano intimo delle coscienze l’autentica posta in gioco: «O con Cristo, o contro Cristo». Il Capo del partito comunista individuò subito nell’intervento pontificio il dato essenziale del tracollo delle sinistre e, soprattutto il fatto che non tanto e non solo De Gasperi sarebbe stato il vittorioso ma, in buona sostanza, Gedda, organizzatore e suscitatore della sollevazione del Comitati Civici. Il tracollo elettorale ebbe, per il Fronte, natura epocale”
(Massimo Caprara, Togliatti ritratto da vicino, Itaca, Castel Bolognese 2003, pp. 25-26).
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 48 – 49