Ai vescovi italiani il Papa parla ancora una volta di nuova evangelizzazione e di interpretazione del Vaticano II. E invita i fedeli a studiare il Catechismo e a parlare con Dio, se vogliono diventare veri missionari del Vangelo
Benedetto XVI ha parlato con i gesti nel corso del suo pontificato, come quando a Madrid ha invitato oltre un milione di giovani ad adorare il SS Sacramento, mettendosi lui per primo in ginocchio nonostante la pioggia battente, come recentemente ha ricordato il giornalista Sandro Magister. Non è un caso che, a cominciare dall’ultima enciclica Ecclesia de eucharistia del 2003 del beato Giovanni Paolo II, sia in corso una significativa crescita delle ore di adorazione nelle parrocchie e anche dell’adorazione perpetua. Ma credo che verrà ricordato anche per le importanti encicliche e per i suoi discorsi, in particolare le catechesi che svolge ogni mercoledì e che stanno commentando le principali vicende della storia della Chiesa.
Il discorso ai vescovi italiani
Uno dei recenti discorsi fra i più importanti è quello rivolto il 24 maggio all’assemblea della Conferenza episcopale italiana. Un discorso programmatico per chi ha a cuore la nuova evangelizzazione come via per uscire dalla crisi della fede nei Paesi di antica tradizione cristiana e per favorire il ritorno a Dio degli uomini contemporanei.
Il Papa comincia il suo discorso ricordando le parole del beato Giovanni XXIII all’inaugurazione del Concilio Vaticano II, quasi cinquant’anni fa: «trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti », «ma in modo nuovo, “secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”» (11 ottobre 1962). Lo fa ricordando quanto lui stesso disse il 22 dicembre 2005 nel discorso ormai diventato famoso perché ci affidò la chiave interpretativa del Vaticano II: «Con questa chiave di lettura e di applicazione, nell’ottica non certo di un’inaccettabile ermeneutica della discontinuità e della rottura, ma di un’ermeneutica della continuità e della riforma, ascoltare il Concilio e farne nostre le autorevoli indicazioni, costituisce la strada per individuare le modalità con cui la Chiesa può offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo, che hanno conseguenze visibili anche sulla dimensione religiosa».
Quindi il Papa ribadisce ancora una volta che il Concilio voleva trasmettere la dottrina pura e integra da sempre insegnata nella Chiesa (continuità) e tuttavia in modo nuovo (riforma).
La crisi dell’Occidente
Ma che cosa stava succedendo per giustificare questa riforma? Che cosa era accaduto nel mondo e continua ad avvenire, possiamo aggiungere? Il Papa ricorda che scienza e tecnica hanno travalicato i loro ambiti e hanno indotto gli uomini, imbevuti di queste ideologie scientiste e tecnocratiche, a svincolarsi «da ogni norma morale».
Tuttavia, nel cuore dell’uomo continua a essere presente la nostalgia di Dio. Quindi, nell’uomo moderno convivono secolarismo e desiderio di Dio, inquietudine e domanda di soprannaturale. Questo, continua Benedetto XVI, si coglie soprattutto nelle società di antica tradizione cristiana, nelle quali proprio nei decenni successivi alla Grande Guerra (1914-1918) si è progressivamente realizzato quel distacco (la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse”) dei popoli dalle radici cristiane dell’Europa, tanto che «il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità».
Segno di questo fenomeno che il Papa definisce secolarismo (che è una cosa diversa dalla secolarizzazione) sono la diminuzione della pratica religiosa, in particolare del sacramento della confessione, l’ignoranza religiosa dei battezzati e in generale l’esclusione di Dio dall’orizzonte di tante persone, che può assumere le caratteristiche del rifiuto o dell’indifferenza, ma anche quelle di tanti credenti che riducono l’essere cristiani a un fatto intimo e privato: «Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso».
Come uscire dalla crisi?
Bisogna ripartire dalle persone, “rifare uomini”, come è stato detto e scritto per decenni da grandi educatori e “pensatori della crisi”, cioè da cattolici consapevoli che la crisi che colpisce i popoli dell’Occidente dopo la Prima guerra mondiale, ma che comincia molti secoli prima, almeno dalla Riforma, può essere superata soltanto se ci saranno le guide per condurre il mondo fuori dalla crisi. Ricominciare dalla formazione di persone e in primis dalla ortodossia e dal fervore, perché come scrive Benedetto XVI, «non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio». In sostanza, non si può parlare di Dio se non si parla con Dio.
Bisogna dunque trovare «nuovi metodi di annuncio evangelico o di azione pastorale», ma queste cose non bastano. Il Papa non estende il discorso, ma lo possiamo fare noi, spero senza alterare il suo ragionamento: bisogna estendere l’evangelizzazione a tutti i campi, dalla cultura alla politica all’economia, ma saranno poi le persone, con il permesso di Dio, a decidere la “partita”. Saranno le persone nella misura in cui sapranno ripartire dalla loro vita, mettendo Dio al centro. Era l’interrogativo a cui l’Assise conciliare voleva dare risposta: «Chiesa, che dici di te stessa?».
L’Anno della Fede
Per questo Benedetto XVI ha voluto indire l’Anno della Fede, come occasione di riscoperta del dono delle verità della fede e così tentare di «condurre l’uomo d’oggi, spesso distratto, ad un rinnovato incontro con Gesù Cristo “via, vita e verità”». Questa è la nuova evangelizzazione. Benedetto XVI fa risalire questo mandato missionario che accompagna il suo pontificato come quello dei predecessori a due episodi, significativo per l’autorevolezza il primo, anche suggestivo il secondo. Il primo è il documento del servo di Dio Paolo VI Evangelii nuntiandi, del 1975, quando il mondo sembrava sull’orlo di diventare completamente asservito al potere comunista. In quella esortazione apostolica Paolo VI indicava alla Chiesa il compito di «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza ». Una fede che deve diventare cultura, dirà il beato Giovanni Paolo II sette anni dopo, il 16 gennaio 1982, parlando al Congresso nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale.
Il secondo episodio ricordato da Benedetto XVI è il discorso di Giovanni Paolo II nel quale usò per la prima volta il termine “nuova evangelizzazione”. Accadde in Polonia, durante il primo viaggio apostolico, esattamente il 9 giugno 1979, durante la visita in un quartiere industriale di Cracovia, nei pressi di Nowa Huta, dove il regime comunista avrebbe voluto costruire la nuova «città senza Dio», quindi senza una chiesa, ma l’«ostinazione » degli operai «impose» prima la presenza di una grande croce, poi la costruzione di una chiesa. Qui spiegò che «l’evangelizzazione del nuovo millennio deve riferirsi alla dottrina del Concilio Vaticano II. Deve essere, come insegna questo Concilio, opera comune dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, opera dei genitori e dei giovani» e benedisse la statua che sarebbe stata riportata dai fedeli nella chiesa di Nowa Huta, che le autorità gli avevano impedito di visitare.
Infine, il Papa raccomanda l’uso formativo del Catechismo della Chiesa Cattolica, «sussidio prezioso per una conoscenza organica e completa dei contenuti della fede e per guidare all’incontro con Cristo» e invita a ricordare, quasi supplicando, che «Dio è il garante, non il concorrente, della nostra felicità ».
Ricorda
«Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare prescindendo dalla mediazione ecclesiale. E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana». (Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012).
IL TIMONE N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 58 – 59
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