Insieme a Carducci fu il poeta “ufficiale” dell’Italia sabauda e massonica. Ma seppe esprimere in alcuni versi indimenticabili l’infinita tristezza di un’umanità che vive senza Cristo. Sognava di tornare “fanciullino”, forse per ritrovare la fede nel Bambino Gesù della sua infanzia.
Per cinquant’anni, dall’inizio del Novecento alle soglie del secondo dopoguerra, la poesia di Giovanni Pascoli (1855-1912) fu lo specchio dell’animo della classe colta italiana. Allievo e successore del “vate” Carducci, il poeta romagnolo ne raccolse l’eredità pesante e cantò i sentimenti di una nazione che era uscita dall’epoca risorgimentale col cuore spezzato: era stata una guerra intestina, condotta da un’élite ai danni del popolo; dell’epopea sabauda rimaneva la malinconia, il senso di una grande occasione mancata, e infine una ferita non rimarginata. Derubato dall’ideologia (massonica) della fiduciosa semplicità del vivere, al poeta non restò altro che rincantucciarsi nell’angolo tiepido delle piccole cose: a consolarsi col motto latino di Myricae «amiamo gli arbusti e le umili tamerici».
LA MADRE PERDUTA
Con i Canti di Castelvecchio (1903) venne la celebrità: dedicato alla madre Caterina Alloccatelli Vincenzi, il libro snoda il pensiero dominante che la poesia sia una consolazione per gli esseri umani, come una lampada che illumina una strada sconsolata, segnata dalla perdita inesorabile degli affetti più cari; la morte segna la fine di ogni bene. Perciò il dialogo con la madre risuona dell’accento disperatamente nostalgico della parola domestica «Zvani»: il diminutivo in dialetto romagnolo di “Giovannino”. Questa voce coccolava il poeta, lo cullava e lo pregava di «vivere e d’essere buono» nella constatazione che la terra sia piccola per l’uomo, estranea, un minuscolo granello di sabbia a confronto con l’infinita grandezza e con la moltitudine degli astri. Nel frattempo la sua parabola politica testimoniava di un’ambivalenza: fu socialista rivoluzionario in gioventù, e venne arrestato per una manifestazione studentesca a Bologna; finì col celebrare la monarchia e a tessere lodi all’Italia imperialista della guerra di Libia.
Il disorientamento di Pascoli fu però un progresso, rispetto all’ipocrisia dell’italiano medio dell’età umbertina: almeno, manifestava dolorante il proprio senso di abbandono; perduta la madre terrena, non c’era nessun conforto per la vita: la Chiesa e la sua presenza materna, la Madonna e il suo abbraccio vicino scomparivano d’improvviso dalle coscienze degli uomini della Nuova Italia. In poesia, ecco il dominio di attivismo, edonismo e spietato cinismo: Pascoli e D’Annunzio ne furono i figli naturali. C’era però qualcosa che non poteva essere rimosso: il ricordo della felicità; Pascoli poeta “fanciullino”. Sugli accordi di tale infinita elegia, il poeta modulava i suoi canti, facendo commuovere un’intera generazione avviata alla secolarizzazione e al laicismo. Il Natale, per esempio, fu un segno difficile da profanare:
«O Ciaramelle degli anni primi, / d’avanti il giorno, d’avanti il vero, /or che le stelle son là sublimi, / conscie del nostro breve mistero».
Ma l’erudizione del Positivismo non era un vero sapere, poiché mutilava le vere aspirazioni dell’uomo, le sue domande sulla vita (perché?) e sulla morte (il mistero). E il poeta fu l’ennesima vittima della confusione spirituale: in lui s’accavallarono nozioni ornitologiche, psicologia, testi indiani come la Bahgavad-gita, platonismo e modernità (E. A .Poe e Victor Hugo). Che cosa era successo? Che in assenza di una vera paternità spirituale si vive orfani e sperduti.
LA FESTA MANCATA
Alla poesia fu dunque affidato il compito di surrogare i beni offerti sin allora dalla preghiera, dalla carità e dalle opere di devozione. Non si può infatti passare sotto silenzio la vena “mariologica” del Pascoli: essa era implicita in "Digitale purpurea", per divenire esplicita nella poesia "Purificazione", recentemente scoperta negli archivi di Messina. Persino Thallusa, la schiava protagonista dell’omonimo poemetto cristiano, fu un nitido riflesso della delicata, universale maternità di Maria. Si pensi all’affettuosa Ninna-Nanna in versi saturni, cantata da lei al bambino della sua padrona. Un altro richiamo indiretto emergeva dal poemetto “Il Sogno della Vergine” (Canti di Castelvecchio) se lo si riferisce a Maria che parla al suo figlio Gesù, nato nella verginità: “fiore non nato da seme”, "tu fiore non retto da stelo, tu simile a stella del Cielo". Ma è una fede complicata, che non si affida del tutto. Nei numerosi ritratti che Pascoli ci diede di Cristo, emerge la figura del “grande uomo”, del filantropo, del saggio che si sacrifica pur in assenza di una vita ultraterrena, che coccola il figlio di Barabba non per perdonarne il padre ma perché «la morte ha sempre l’ultima parola»:
«Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: / Il figlio – Giuda bisbigliò veloce – /d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi: / Barabba ha nome il padre suo, che in croce / morirà. – Ma il Profeta, alzando gli occhi, / – No –, mormorò con l’ombra nella voce; / e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi».
Ecco perché tutta l’opera pascoliana risentiva di retrogusti amari, di rigurgiti anche in piena apparente festosità: perché non c’era niente da festeggiare in questa vita che scorre e trascorre, in cui la morte è sempre in agguato. Per Pascoli, il cristianesimo era «la fede del dolore e dell’amore» (1899) ma era anche una religione che commetteva l’errore imperdonabile di predicare la Risurrezione e la promessa della vita eterna in Cristo; vedeva la stessa “agape” come una pausa temporanea che gli uomini si concedono nel gran pianto dei loro giorni. Tanto varrebbe, ripeteva implicitamente il poeta, non essere mai cresciuti: e nel suono lieve della festa natalizia ascoltava solo il rimpianto per non essere “rimasto bambino” (La befana):
«Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne, / ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. / Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; / hanno destata ne’ suoi tuguri / tutta la buona povera gente».
La vita è dunque un suono da “organo dei poveri”: suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla… Eppure, furono queste le realtà che la Nuova Italia volle sradicare, per edificare la nuova idea dell’uomo: secondo lo storico Aldo Mola, Giovannino venne iniziato il 23 settembre 1882 alla Loggia «Rizzoli» di Bologna, all’età di ventisette anni, poco prima di partire per raggiungere la sua prima cattedra d’insegnamento liceale a Matera; lo stesso anno in cui s’era laureato, con una tesi di letteratura greca sul poeta Alceo. Forse, l’estrema sincerità fu raggiunta da Pascoli solo nei “Poemi cristiani” (in latino, 19011911): Attilio Momigliano vi coglieva «una atmosfera adatta a esprimere la storia intima del suo spirito come quando descriveva la malinconia del paganesimo morente e la fiducia indefinita e triste del cristianesimo nel suo primo sorgere».
IL TIMONE – N. 58 – ANNO VIII – Dicembre 2006 – pag. 48 – 49