Sfatiamo i luoghi comuni della pseudocultura dominante: la verità non esiste, la metafisica è dissolta. Solo un pensiero forte, ancorato alla verità, rende possibile fondare sulla giustizia la convivenza umana. Diversamente, l'uomo resta in balia di un potere arbitrario.
In un articolo comparso sul quotidiano Avvenire il 7 febbraio 1998, Gianni Vattimo, docente di filosofia all'Università di Torino, scrive: “Quanto a me e al pensiero debole, dirò molto francamente che questa mi sembra la sola filosofia cristiana praticabile dopo la dissoluzione della metafisica. … Il pensiero debole è … una forte teoria dell'indebolimento come destino dell'essere … ciò che sappiamo del mondo è mediato dal sistema dell'informazione – non miti, non favole, ma certo non specchio di una possibile oggettività. E il mondo dei valori è anch'esso tutto permeato di storicità …La mia ipotesi è che tutto questo cammino del nichilismo, che rompe la schiavitù dell'uomo verso l'oggettività, sia il cammino stesso della storia della salvezza”.
Il tono garbato e colloquiale non può far dimenticare che storicità dei valori, impossibilità di raggiungere una verità universale, dissoluzione della metafisica e nichilismo non sono ipotesi astratte, ma l'orizzonte culturale a cui fanno riferimento settori dominanti del mondo intellettuale, politico ed economico, orizzonte spesso pervaso da luoghi comuni difesi con ostinazione e acrimonia da ogni tentativo di mettere in discussione l'inviolabilità delle loro premesse.
Il primo di questi luoghi comuni è l'idea, estremamente diffusa, ma ardua da dimostrare, che la verità non sia. Già san Tommaso aveva notato a questo proposito che “è impossibile affermare in senso assoluto che non c'è verità” (De veritate, q.1, a.5, ad 5); infatti, se si nega in senso assoluto che il vero sia, qualsiasi affermazione che abbia la pretesa di contenere e trasmettere un significato cade o perché insensata o perché contraddittoria: è insensata se si immagina una condizione in cui non c'è né il vero né il falso, cioè una condizione di assenza totale di significato; in questo caso infatti varrebbe quello che dice Aristotele quando osserva che è ridicolo mettersi ad argomentare contro chi parla senza costrutto “almeno finché non ha niente da argomentare: difatti un tale uomo… somiglia ormai ad una pianta” (Metafisica, IV,4); è contraddittoria invece quando si afferma che “è vero” che non vi possano essere verità, perché l'esistenza della verità viene contemporaneamente affermata e negata.
Inoltre l'uomo sempre si manifesta come colui che cerca la verità su se stesso e sulla realtà; e la verità “inizialmente si presenta all'uomo in forma interrogativa …” (Giovanni Paolo II, enciclica Fides et ratio, 26). La verità che si presenta all'inizio sotto forma di domanda e attraverso la domanda è che l'uomo è “colui che s'interroga sul senso delle cose”.
È curioso che un'idea così difficile da fondare abbia avuto tanta fortuna; la ragione forse è da ricercare nel fatto che la verità per sua natura pretende il riconoscimento e quindi esclude l'orgoglio dell'autosufficienza; per questo motivo, a livello esistenziale, la presenza del vero può generare in molte persone il rifiuto del riconoscimento e così aprire la strada alla crisi del senso, giustificata dalle stesse persone come rifiuto di una presunta violenza intrinseca alla natura stessa della verità.
Ciò che a molti critici sfugge è che l'intransigenza del vero non può diventare contenuto di un'imposizione perché senza il libero assenso della volontà non ci può essere riconoscimento della verità.
L'aspetto etico implicito nella conoscenza è descritto con penetrazione da Francesco Botturi: “Il rapporto vero con la realtà è come un rapporto sponsale, al cui interno è un non senso l'imposizione, perché è natura stessa di tale rapporto l'essere comunicazione integrale nella libertà … C'è da domandarsi… se il timore nichilistico per la verità non dipenda …da quel presupposto atteggiamento dominativo, che non riesce a pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero” (Dal nichilismo all'ateismo, in Cultura e Libri, 48-49, 1989, p.50) II secondo luogo comune riguarda la pretesa dissoluzione della metafisica. La metafisica non s'identifica con un sistema filosofico particolare; essa si costituisce quando la ragione, muovendo dall'esperienza dei sensi, perviene al fondamento invisibile dell'esperienza sensibile. La scoperta della metafisica è esposta da Platone nel Fedone. Platone critica i filosofi naturalisti che cercavano di spiegare ogni cosa ricorrendo solo a cause fisiche e meccaniche e, per farsi capire, porta tra l'altro l'esempio della prigionia di Socrate: il fatto che Socrate abbia le gambe, le ossa, un corpo capace di muoversi spiega il suo essere andato in carcere, ma solo dal punto di vista meccanico; la vera causa è la scelta morale del bene, infatti egli giudicò bene ubbidire alle leggi e subire la condanna. La causa vera e reale è la volontà di bene di Socrate; tale causa non può essere toccata, vista, odorata, tuttavia esiste, il pensiero la può cogliere come motivo reale della prigionia. Una spiegazione solo fisica o meccanicistica può dire solo “come” Socrate è andato in prigione, non “perché”. La capacità metafisica consiste nella capacità costitutiva (cioè originaria, trovata insieme alla natura) della ragione di passare dalla dimensione visibile a quella invisibile, dal piano sensibile a quello trascendente. Rivendicare la capacità di conoscere la dimensione trascendente e metafisica è di vitale importanza, in senso letterale, per la nostra cultura almeno per due motivi: solo un pensiero forte, capace di superare la mutevolezza della realtà sensibile, può fondare sulla verità e la giustizia la convivenza umana, diversamente essa rimane in balìa di un potere arbitrario, sia esso espressione di una minoranza o di una maggioranza; inoltre la fede nella Rivelazione può essere fondata solo su un pensiero forte: la fede esige la libertà perché è un assenso a Dio che si rivela, ma la causa della libertà è la ragione (san Tommaso, Summa theol, I-II, 17, 1 ad 2) perché l'uomo può scegliere solo ciò che conosce.
Soltanto quando la ragione umana, attraverso la conoscenza vera e certa (anche se imperfetta e analogica) della natura, perviene alla consapevolezza dell'esistenza di Dio, l'uomo si apre con la pienezza della sua umanità all'annuncio della salvezza: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da Lui compiute…” (Rm 1,20). Come è possibile che Dio parli di Sé agli uomini perché essi si affidino a Lui se non possono sapere che esiste? La fede non è un salto nel buio, ma un salto nel mistero infinito di un Dio che si sa esistente; è un atto libero, un atto di cui l'uomo è responsabile; essa esige che ciascuno di noi, anche se non è filosofo, sappia dare le ragioni della speranza che è in lui. Diversamente la fede si riduce a fideismo: a una ragione debole corrisponde una fede debole, senza ragioni per credere, una fede che si sostiene solo sul sentimento.
Sembra quindi evidente che non solo il cammino del nichilismo non coincide con il cammino della storia della salvezza, ma anzi sia il più grande ostacolo che la salvezza possa incontrare sul proprio cammino. Ostacolo non solo per i singoli, ma anche per i popoli; infatti, se il primo esito del pensiero depotenziato e secolarizzato ha prodotto l'ideologia e con l'ideologia i gulag e la shoah, quale sarà la carica di distruzione insita nel nichilismo?
"Tutti gli uomini desiderano sapere, e oggetto proprio di questo desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le cose. L'uomo è l'unico essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare".
(Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio, Città del Vaticano 1998.
Francesco Botturi, Dal nichilismo all'ateismo, in Cultura e Libri, Il nichilismo, nn.. 48-49, 1989, pp.43-53.
Etienne Gilson, Introduzione alla filosofia cristiana, Coll. Scienze umane e filosofia, Editrice Massimo, Milano 1982.
Tommaso d'Aquino, La verità (quaestio I de veritate), Editrice Liviano, Parma 1970.
Josef Pieper, Per la filosofia, Ares, Milano 1976.
IL TIMONE N. 11 – ANNO III – Gennaio/Febbraio 2001 – pag. 26-27