Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium Vitae (50b), offre una chiave di lettura del nostro tempo. Essa recita: “Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la «cultura della morte» e la «cultura della vita» “. Il sommo Pontefice denuncia uno dei segni caratteristici dell’ora presente: è in atto una lotta tra culture, vale a dire tra visioni dell’uomo e del mondo e tra criteri di giudizio differenti e opposti, gli uni a servizio della vita, gli altri della morte. Tertium non datur, sembra si possa evincere dalle parole del Papa.
Ci pare utile richiamare alcuni tra gli aspetti più evidenti della cultura della morte. Per impedire che cadano nell’oblio, certo, ma anche per generare in noi cattolici preghiere più fervide, propositi più fermi, sforzi più generosi per l’affermazione vittoriosa della cultura opposta, quella della vita.
Se si pensa alla quantità sbalorditiva di vittime innocenti, il marchio più infamante della cultura della morte si incarna nella strage dell’aborto. L’omicidio volontario di esseri umani nel grembo della loro madre viene promosso da potenti e crudeli forze anticristiane, tutelato e finanziato dalla legislazione di molti Paesi, non esclusi quelli che si dicono “democratici”.
Tra le impronte della cultura della morte va annoverato anche il divorzio. A ben riflettere, esso pone fine legalmente alla vita di una famiglia, separa i coniugi e minaccia seriamente la sana educazione della prole. I frutti si vedono nel comportamento immaturo e complessato dei figli di genitori divorziati. Non di tutti, per grazia di Dio.
Un terzo segno della cultura della morte si riflette nella lotta per la legalizzazione dell’eutanasia, vale a dire per la soppressione volontaria di una vita umana, a insindacabile giudizio del richiedente o delle persone che lo circondano.
Un quarto aspetto è visibile nel tentativo di promuovere la legalizzazione delle droghe, leggere o pesanti, in nome di una presunta libertà dell’individuo e di un altrettanto presunta lotta al crimine dello spaccio. La droga, si sa, conduce alla dissoluzione e coloro che vogliono il suo riconoscimento legale, oltre che moralmente responsabili, operano di fatto per una cultura della morte.
Un quinto segno è dato dalla promozione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Per sua natura sterile, tale consorzio è impossibilitato a dar vita ad altri esseri, dunque si ascrive nella “cultura” contro la vita, in favore della morte.
Da ultimo, la campagna per l’utilizzo su scala mondiale dei metodi contraccettivi artificiali, massima preoccupazione di certi organismi internazionali che si dedicano – così ci fanno credere – allo sviluppo del Terzo Mondo, è ulteriore segno di una cultura della morte, laddove gli anticoncezionali – lo dice la parola – esistono proprio per impedire la nascita di una nuova vita.
Ora, nei fatti, gli unici ad opporsi a questo quadro assai inquietante siamo noi cattolici. Di questo ci vantiamo, senza falsa modestia. Il Santo Padre, lo abbiamo visto, denuncia la battaglia tra culture, non depone le armi e ci invita a seguirlo. Obbediamo, convinti dalla verità delle sue argomentazioni e mossi dalla consapevolezza che, se oggi la cultura della vita sembra schiacciata dagli ingenti mezzi a disposizione delle forze avverse, un domani la giustizia sarà ristabilita.
E a chiedere ragione, ad emettere un giudizio e formulare una sentenza non sarà un imperfetto tribunale umano, ma la corte divina. E Dio, è bene ricordarlo, è un Giudice infallibile, il Solo che non ha bisogno di testimoni per appurare la verità.
IL TIMONE – N. 7 – ANNO II – Maggio/Giugno 2000 – pag. 2