Nella storia è una minaccia reale. Finché permane la presunzione dell’autosufficienza assoluta del pensiero umano. Da qui scaturiscono scientismo, laicismo e relativismo.
Basta il buon senso per capire che una malattia può essere curata solo se la diagnosi è giusta; se il medico sbaglia, il malato corre il rischio di peggiorare e anche di morire. La stessa cosa vale per le “malattie” che affliggono i popoli nella storia, come è il caso del totalitarismo. Dopo i milioni di morti e di schiavi del XX secolo, nessuno mette seriamente in discussione che il totalitarismo sia una “malattia” della società, ossia una pericolosa degenerazione delle relazioni tra gli uomini. Si riconosce che la dinamica totalitaria si avvale di una prassi identificabile che si manifesta principalmente nella concentrazione del potere e nell’impiego del terrore e della tirannia estesa a tutti gli aspetti della vita umana. Non c’è invece lo stesso consenso sulla sua origine, cioè sulle cause che lo hanno reso possibile. A fronte di una giusta condanna delle idee e del regime nazionalsocialista, ancora si trova chi afferma che la colpa dei gulag sovietici non è del comunismo, ma di Stalin che ne ha tradito i veri ideali, come se fosse da condannare esclusivamente l’uso feroce del potere e non il progetto ideologico che lo esigeva per affermarsi.
L’inconsistenza di questa posizione è già manifesta nel 1951 quando a New York viene pubblicato Le origini del totalitarismo. In quest’opera Hannah Arendt (1906-1975) sostiene che il totalitarismo è una forma politica nuova, da non confondere con altri sistemi autoritari, quali il dispotismo, la dittatura o la tirannia, apparsi in precedenza nella storia o contemporanei. La sua novità consiste nel perseguire la distruzione dell’identità umana e del suo legame con gli altri uomini. Esso è realizzabile perché i legami sociali sono stati allentati dalla massificazione. L’uomo di massa è l’uomo atomizzato la cui condizione di vita è l’isolamento totale, non perché non ha relazioni con altri uomini, ma perché queste relazioni sono inessenziali e non gli consentono di partecipare alla costruzione della società.
La società di massa è composta da individui che desiderano evadere dalla realtà perché vivono in una condizione di estraniazione conseguente alla distruzione dei rapporti politici e sociali organici: «La rivolta delle masse contro il “realismo”, il buon senso e tutte “le plausibilità del mondo” (Burke), è stata il risultato della loro atomizzazione, che le ha private dello status sociale e, insieme, dell’intero settore dei rapporti comunitari, nel cui ambito soltanto può il buon senso avere una funzione appropriata». In questa situazione la propaganda totalitaria propone un mondo capace di competere con quello reale: il mondo fittizio dell’ideologia.
Le ideologie non sono un’invenzione del XX secolo; esse, come ricorda Giovanni Paolo II in Memoria e identità, «sono profondamente radicate nella storia del pensiero filosofico europeo», il loro inizio deve essere individuato nel rovesciamento operato dal cogito, ergo sum di Cartesio che segna il crollo della filosofia realista. Cartesio, desiderando un sapere fondato sulla certezza, sceglie di partire dal pensiero e di dubitare dell’essere. Cartesio apre alla filosofia la strada del soggettivismo e del relativismo, il terreno fertile su cui cresceranno le ideologie. Esse, al di là delle differenze e dei contrasti di contenuto, condividono una fede ideale che sfida la realtà e non è scalfita da nessuna evidenza contraria.
Le ideologie sono difficili da comprendere perché chi le sostiene pensa all’interno di un universo mentale diverso da quello reale, un universo deformato. All’inizio di ogni ideologia c’è la rottura con la storia precedente e la promessa di un mondo nuovo, migliore. La salvezza temporale, cioè l’avvento della società giusta, si attua attraverso una prassi rivoluzionaria guidata da un gruppo (razza, classe sociale, popolo…) a cui è affidata la missione redentrice: tutto il bene è prodotto dalla volontà e dall’azione dei buoni, tutto il male dall’azione dei cattivi. Aleksandr Solzenicyn, in Arcipelago Gulag, descrive questa situazione con toni accorati, spiegando che, prima della detenzione, anch’egli era corrotto dalle sue spalline di ufficiale, nella convinzione di essere «un uomo d’una razza superiore». E conclude in questo modo il suo esame di coscienza: «Se fosse così semplice! Se da una parte vi fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore?».
Nel mondo diviso dall’ideologia, da una parte vi sono gli amici della libertà, dell’eguaglianza, del progresso, dall’altra i controrivoluzionari, i fascisti, i reazionari. In questa visione manichea la morale e il linguaggio vengono dissolti. Non ci sono più valori e nozioni universali, il bene e il male dipendono dall’appartenenza allo schieramento e alla buona causa e tutto è permesso. Tutti coloro che non si riconoscono nell’ideologia sono nemici da sottomettere perché essa è infallibile e ogni disaccordo è colpevole. Quando l’ideologia prende il potere i suoi depositari hanno il compito di educare e rimodellare la società attraverso la distruzione della memoria del passato ottenuta con l’imposizione di un nuovo linguaggio, un nuovo culto, un nuovo diritto. Operazioni che hanno lo scopo di creare l’«uomo nuovo» dissolvendo totalmente la sua precedente natura.
Possiamo dire che la società occidentale contemporanea non corra più il rischio del totalitarismo? La sconfitta del nazionalsocialismo e la caduta dell’impero sovietico non autorizzano questa conclusione.
La minaccia più radicale non proviene dai frantumi delle ideologie vinte che difficilmente potranno risorgere, ma dalla matrice che le ha generate: la fede irragionevole nell’autosufficienza assoluta del pensiero umano. Una fede che assume l’aspetto dello scientismo, del laicismo, del relativismo, adattandosi ad ogni situazione.
L’antidoto che limita la diffusione di questo contagio culturale è il rifiuto di ogni semplificazione manichea, insieme allo sforzo per tenere davanti agli occhi e al cuore quella consapevolezza (così duramente conquistata da Solzenicyn) del fatto che l’uomo non crea la realtà, bensì deve rispettarla così com’è: «la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore?».
RICORDA
«[…] la violenza totalitaria […] mira a trasformare la mentalità degli uomini. “Il nostro partito – scrive la Pravda del 24 febbraio 1986 – esiste per cambiare l’uomo, per mutare le coscienze delle persone”. Se è vera l’analisi che abbiamo condotto, queste parole non sono del tutto equivoche.
Sono false solo nella misura in cui il potere totalitario pretende di forgiare uomini superiori, mentre in realtà fabbrica uomini abbrutiti.
“Il diavolo è la scimmia di Dio”, afferma una vecchia massima dei teologi».
(Philip Bénéton, Le rivoluzioni ideologiche, in «Studi Cattolici», n. 338/339, Aprile/Maggio 1989, p. 306).
BIBLIOGRAFIA
Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 1991.
Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, 2005.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1999.
Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, 1974.
Michail Geller, Il potere totalitario, in «L’Altra Europa», n. 5/1987.
Philip Bénéton, Le rivoluzioni ideologiche, in «Studi Cattolici», n. 338/339, Aprile/Maggio 1989, pp. 301-306.
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 30 – 31