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11.12.2024

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Petrarca: l’autunno del medioevo
31 Gennaio 2014

Petrarca: l’autunno del medioevo

 

 

Credere che gli uomini si identifichino con le loro azioni: è l’errore di Machiavelli, Hobbes e Rousseau. Ma è anche l’idea che prende corpo nella poetica di Francesco Petrarca. Nel suo smarcarsi da un virile impegno, alla ricerca di un’Arcadia beata dove il peccato non sarebbe presente.

 

 

 

 

La grazia verbale della lirica di Francesco Petrarca (1304-1374) ha influito sulla poesia occidentale lasciandovi una impronta indelebile: ci furono epoche durante le quali fare poesia significava essenzialmente imitare il Petrarca e il “petrarchismo” fu un fenomeno diffuso in tutta Europa. Dal Cinquecento, chiunque volesse affidare ai versi e alle rime i moti del proprio cuore ha dovuto fare i conti con la lingua del-l’autore del Canzoniere : la sua scelta, compiuta sette secoli fa, di identificarsi in toto nella figura del Poeta, ha legato i destini dell’arte occidentale alle fortune di autori ed editori i quali “simul stabunt simul cadunt”: si reggono gli uni sugli altri.

Un mondo a parte

 

E quando la repubblica delle belle lettere è caduta, è caduta anche a causa del metodo poetico del Petrarca: ossia per la scelta di affidarsi del tutto alla pagina, di darsi del tutto alla propria opera e soltanto su quella voler essere giudicati. Questo è un errore antropologico prima che poetico perché, al contrario, l’uomo è sempre più grande delle cose che fa e non è mai contenuto per intero nei suoi atti: la sua dignità non risiede nella sua volontà ma nella infinita bontà del Creatore.
Dal Trecento in poi, dall’epoca che Huizinga definì “l’autunno del medioevo”, si è creduto che gli uomini fossero uomini solamente in virtù delle loro azioni: è l’idea di Machiavelli, Hobbes e Rousseau per cui l’individuo diventa monade, elemento della società e la società (sostituendosi a Dio) determina l’esistenza del singolo al punto da aver l’ultima parola su di lui. Anche queste conseguenze stavano implicite nella poetica del Petrarca, nel suo smarcarsi da un virile impegno, nel suo optare per un’Arcadia beata dove il peccato non fosse presente. Scrisse di sé: «mi dedicai a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra epoca: l’attuale mi sono sforzato di dimenticarla, inserendomi spiritualmente ogni volta in altre».

Laura, la laurea e l’alloro

Significative furono le sue false partenze, le cose lasciate cadere: sarebbe stato grande anche in altri campi se si fosse liberato dell’ambivalenza. Intraprese la carriera ecclesiastica minore ma non pronunciò alcun voto; fu ambasciatore ma della mera diplomazia; amò Laura in modo adulterino, per poi rincrescersi in tarda età persino di essersene innamorato e collocando la data del colpo di fulmine il venerdì santo 6 aprile 1327, nella cattedrale di Avignone.
Ottenne poi di essere laureato a Roma, e ricevette l’alloro per merito di un poema incominciato e mai portato a termine, omaggio mondano a un autore diviso tra obbedienza alla moda e disprezzo del mondo: contempliamo infatti in Petrarca l’emblema del “cristiano a metà”, indeciso e pensoso come lo ritrae Altichiero da Zevio nell’affresco dell’oratorio padovano di san Giorgio. E pensare che nel trattato De vita solitaria (Quaresima del 1347) fu a un passo dalla vera scelta quando lodò l’uomo dei campi che, nella solitudine della campagna, si risveglia all’alba e «se ne va alacre alla vicina selva, piena di pace e silenzio, e dove ferma, trovato un sedile di fiori ed erbe ovvero un colle aperto, incomincia a godere dello splendore del sole e lieto canta con voce gaia le quotidiane lodi al Signore, tanto più dolcemente se per avventura ai devoti sospiri tiene bordone il mormorio lene di una cascatella o i dolci lamenti degli uccelli».
Petrarca anelava evidentemente a una quiete negata a quanti non l’abbiano nel cuore. Negli anni, scrisse decine di lettere agli amici, agli antichi, ai posteri, in una impossibile confessione affidata agli scritti autografi. Tra le Familiares, la Lettera IV indirizzata al padre agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro e datata 26 aprile 1336, con una grafia fine e regolare, schiacciata eppure mobile e volatile nelle consonanti, scrisse: «oggi, mosso unicamente dalla curiosità di vedere un luogo famoso per la sua altezza, ho scalato il monte più alto di questa regione, che non a torto chiamano Ventoso (è l’at-tuale Mont Ventoux, una delle salite storiche dal Tour de France; ndr). Da molti anni avevo in animo questa ascensione; infatti, come ben sai, sin da bambino per volere di quel fato che sconvolge i piani degli uomini ho vissuto in questi luoghi; e questo monte, visibile proprio da ogni parte, ti sta quasi di continuo dinanzi agli occhi. Mi prese la voglia di compiere una buona volta ciò che ogni giorno immaginavo di fare. Nel pensare a un compagno di viaggio, però – incredibile a dirsi – ecco che, fra tanti amici, non ve ne fu neppure uno a parermi adatto: tant’è rara, anche tra persone care, quella perfetta sintonia di volontà e di comportamenti (…). Alla fin fine – cosa pensi? – ho cercato appoggio in famiglia, e mi sono confidato con il mio unico fratello, più giovane di me, che tu ben conosci. Fu musica per le sue orecchie, felice com’era di essere per me fratello e amico. Partiti da casa il giorno stabilito, in serata giungemmo a Malaucena, sito alle falde della montagna, verso settentrione».

 
Il grande amico

Va ricordato che il fratello, l’amato Gherardo, si era fatto monaco e Francesco ne invidiava la vocazione. Pur avendo sempre desiderato «portare ogni opera a compimento” per completare secondo perfezione insuperabile ogni componimento, sul Petrarca aleggia un’aria di incompiutezza che lascia aperte altre prospettive, come nel sonetto LXXXI:

Io son sì stanco sotto ‘l fascio antico
de le mie colpe et de l’usanza ria
ch’i’ temo forte di mancar tra via,
et di cader in man del mio nemico.

Ben venne a dilivrarmi un grande amico
per somma et ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia,
sì ch’a mirarlo indarno m’affatico.

Ma la sua voce anchor qua giù
rimbomba:
o voi che travagliate, ecco ‘l camino;
venite a me, se ‘l passo altri non serra.

Qual gratia, qual amore,
o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch’i’ mi riposi, et levimi da terra?
Anche per l’illustre cantore di Laura il grande amico era Gesù Cristo, per il quale fu scritto il famoso verso: «Tu sai ben che ‘n altrui non ò speranza». Il Canzoniere stesso termina con la canzone alla Vergine «bella, di sol vestita, coronata di stelle».

Ricorda
«Della sua [Petrarca] fama primo autore fu egli stesso, dotato di un sentimento assai pratico del valore delle relazioni umane, della cura della propria pubblicità, del sapersi assidere al tempo opportuno sui gradini dei potenti e ricchi senza troppo impegnarsi. E di una naturale inclinazione verso le vie di mezzo».
(Giuseppe Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana, Pan editrice, Milano 1976, pp. 43-44).

IL TIMONE – N. 60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 48-49

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