Una stagione feconda per la fede e per la liturgia si sviluppa attorno alla celebre abbazia di Cluny, nel XII secolo. Il suo abate ne diventa il punto di riferimento e ne rimarrà il modello
Le sfide di Cluny
Sarebbe stato per trent’anni lo stile del suo abbaziato, apparentemente dimesso e privo di gesti clamorosi, eppure tanto più coraggioso, tenace e avveduto se paragonato ai problemi e alle tensioni che quest’uomo mite dovette fronteggiare. Oltre le mura del monastero la società europea viveva infatti profonde trasformazioni e nuove sfide. Anche Cluny venne in modi diversi coinvolta nell’avventura delle crociate. Pietro, tuttavia, non si limitò ad accettare e a sostenere la logica del confronto armato. Volle capire e conoscere: ne nacque la traduzione del Corano in lingua latina, compiuta a sue spese. L’abate decise quindi di comporne un’accurata confutazione, grazie alla sua solida formazione teologica e al suo amore per la cultura biblica.
L’antico cenobio era per eccellenza luogo di ospitalità: durante lo scisma papale, che costrinse papa Innocenzo II esule in terra francese, Pietro gli aprì le porte del monastero. Allo stesso modo accolse Pietro Abelardo (1079-1142), il grande filosofo, caduto in disgrazia e condannato dal concilio di Sens (1140).
Profondo e meditato risultò anche il confronto con il nuovo monachesimo cisterciense e con Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), al quale era legato da una sincera amicizia.
L’estremo rigore della vita quotidiana e il rinnovato impegno nel lavoro manuale, le novità di Cîteaux, apparivano quasi un atto di accusa nei confronti di Cluny. La lunga lettera che Pietro indirizza a Bernardo evidenzia in tono pacato l’eccesso delle accuse mosse contro il monachesimo tradizionale e ricorda che la vita del monaco si alimenta di umiltà e di carità (virtù che nella foga polemica si rischiava di trascurare); ribadisce che i possedimenti di Cluny sono semplicemente la possibilità di estendere in terra il regno di Dio, di sostituire la pace alla guerra, la preghiera alla violenza; anche il modo di trattare i servi e i braccianti agricoli è segno della nuova civiltà che il monastero ha realizzato: una terra, un castello donato all’Ordine trasformano una «spelonca di ladri» in «una casa di preghiere». Pietro difende con passione la sua Cluny, ma intanto ne valuta i limiti e procede deciso a un’opera di riforma.
Nel cenobio
Altrettanto impegnativa risultava la gestione del vasto patrimonio terriero dell’abbazia. Pietro, che avrebbe privilegiato il raccoglimento e lo studio, era costretto ad annotare: «Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, sono distratto qua e là, ho la mente rivolta ora verso i miei affari ora verso quelli degli altri».
Cluny nutriva quotidianamente trecento monaci e alcune migliaia di poveri: un peso ingestibile che l’abate dovrà ridimensionare e commisurare alle reali potenzialità economiche del monastero, capace di produrre solo un quarto di ciò che veniva consumato. Furono tempi di austerità, ma soprattutto di riorientamento della gestione economica delle proprietà attraverso una conduzione diretta da parte dei monaci cellerari, di semplificazione e di selezione delle colture in relazione alla tipologia dei terreni.
Uomo di Chiesa, non voleva perdere di vista orizzonti spirituali ben più alti. Le ricche e complesse liturgie rischiavano di reiterarsi stancamente; a più riprese lo stesso Pietro si lamentò della monotona e inappropriata melodia dei canti. Sapeva, con grande senso di realismo, che col tempo un male sottile può insinuarsi nella vita dei religiosi, anche dei migliori; sapeva che mediocrità e delusione soffocano e rischiano di spegnere anche gli ideali più sinceri, che non possono essere il solo esercizio ascetico, la pura forza di volontà a ravvivarli. Credeva che compito dell’abate fosse primariamente tener desta la fede, ravvivare la carità, infondere speranza. Per questo scrisse preghiere su nuove melodie e uffici liturgici, tra i quali uno per la festa della Trasfigurazione di suggestiva bellezza.
Compiti onerosi, anche perché non sempre la salute lo soccorreva. Soffriva di una sorta di bronchite cronica e il suo fisico stentava a reggere gli sforzi dei continui viaggi: gli inverni lunghi e freddi lo mettevano a dura prova, ma sapeva rallegrarsene, perché le forzate permanenze nell’abbazia madre gli consentivano di dedicarsi alla corrispondenza, allo studio e alla preghiera; il caldo estivo lo fiaccava, come quando era costretto a recarsi nella Città eterna, nella afosa, insopportabile estate romana, della quale sempre lamenta il clima micidiale e il sole che la fa disciogliere come fosse cera. In quest’uomo misurato sono solo rapidi cenni, tratti da occasionali passaggi delle lettere, sempre mitigati da una serena accettazione delle sue condizioni e da un fiducioso abbandono alla volontà di Dio.
Pietro – lo testimoniano i suoi contemporanei – sorrideva sempre, sapeva essere contento e sapeva comunicarlo.
Loquace e piacevole nella conversazione, all’occorrenza taceva e ascoltava. Sensibile e bisognoso di affetto, era capace di amicizia sincera e grande. Ed era maestro nel consolare: ben lo sapeva il filosofo Abelardo, che nella sua delicata compagnia aveva trovato la pace inutilmente cercata per tutta la vita. Amava stare in silenzio e, quasi sperduto, contemplare il mistero dell’Incarnazione, dell’umanità che Dio ha voluto assumere per la salvezza degli uomini («Non hai avuto orrore dell’utero di una Vergine», meditava).
Lo sguardo verso questo amore totale e senza riserve era il suo segreto; abate di uomini e consapevole guida di peccatori, confidava: «È nella mia stessa natura d’essere alquanto portato a perdonare, e l’esperienza stessa mi inclina al perdono».
Pietro il Venerabile morì nell’inverno del 1156: era il giorno di Natale. Raccontano le cronache monastiche che i confratelli scoprirono il suo corpo e lo trovarono candido e diafano, come se già fosse trasfigurato.
BIBLIOGRAFIA
IL TIMONE N. 92 – ANNO XII – Aprile 2010 – pag. 26 – 27
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