Sono preziose le preghiere a formula fissa. Richiamano le basi della nostra fede e il modo giusto per esprimerla. Semplici, essenziali, obbligano il nostro io a contenersi e a scorrere entro argini sicuri e precisi nel rapporto con Dio.
Sappiamo come l’esortazione alla preghiera sia una costante dell’intera Scrittura, esortazione confermata da Gesù stesso, che non solo ci dà una continua testimonianza a questo proposito ma che ci invita addirittura a vegliare e pregare «in ogni momento» (Lc 21,36).
Basta, dunque, anche solo questo accenno per capire che nella vita del cristiano la preghiera non è un optional, riservato ad alcuni momenti particolari, ma una costante, una trama che tutta l’attraversa.
A noi, laici impegnati in mille cose, questo della preghiera continua sembra un compito pressoché impossibile. Per questo talvolta pensiamo che, in forma così totale e impegnativa, sia una vocazione specifica riservata non a tutti, ma soltanto ad alcune persone, per esempio i monaci. C’è una parte di verità in tutto questo, nel senso che l’organizzazione della vita monastica mirante in primo luogo a compiere l’Opus Dei, scandita cioè dalla preghiera liturgica delle Ore, dalla Lectio divina, dal silenzio e dal raccoglimento costante, sono davvero una caratteristica della vita monastica non riproducibile altrove. Eppure, se Gesù ci esorta a «pregare in ogni momento» significa che ciò è possibile a tutti. Forse si tratta allora di capire meglio che cosa si deve intendere per preghiera.
Cominciamo a fare una grande e fondamentale distinzione: quella tra preghiera liturgica e preghiera personale. La prima è quella grande azione di lode, di impetrazione, di ringraziamento che la Chiesa nel suo complesso, guidata dai sacerdoti che celebrano il culto e amministrano i sacramenti, rivolge a Dio per rendere costantemente viva e operante l’azione di grazia e di salvezza. La sua importanza e bellezza meritano un discorso a sé.
Altro discorso particolare riserveremo anche ad un’altra forma di preghiera che è personale, ma che ha caratteristiche proprie ed è la lettura e la meditazione della Scrittura. Soprattutto in quella forma sempre più diffusa che fa tesoro dell’esperienza dei monasteri e che è la Lectio Divina.
Ora, invece, ci concentreremo sulla preghiera personale, intesa nel modo più comune. Quella vocale, guidata da formule, quella spontanea, che parla con Dio secondo i moti del cuore e infine quella contemplativa, che ha al suo centro non parole ma il loro esatto contrario. E, cioè, il silenzio. Chiariamo subito che queste tre forme non sono esclusive ma che normalmente si intrecciano tra loro nella dinamica della nostra vita spirituale.
Le preghiere guidate. Tutti conosciamo, per averle apprese fin da piccoli, quelle fondamentali: il Padre Nostro, l’Ave Maria, il Gloria, il Credo, la Salve Regina, e quella sintesi meravigliosa che le raggruppa e che è il Santo Rosario. Ma anche innumerevoli altre: quelle rivolte all’Angelo custode o create per suffragio dei defunti o indirizzate ai tantissimi santi ai quali chiediamo amicizia e intercessione. E che si esprimono nelle devozioni di cui ognuno di noi ha esperienza e delle quali, in altra parte, parleremo diffusamente. Queste preghiere vocali a formula fissa, soprattutto quelle fondamentali, hanno l’importante compito di aiutarci a ricordare le basi della nostra fede e, al contempo, a trovare il giusto modo per esprimerla. Proprio per questa loro semplicità ed essenzialità, possono sembrare un sorta di gabbia a chi desideri esprimere più liberamente e pienamente il proprio amore in un colloquio diretto e personale con Dio. Ovviamente, le prime non impediscono il secondo. Però esse sono e restano importanti non solo all’inizio dell’esperienza di fede, quando la nostra tiepidezza spirituale può rendere difficile trovare da soli le parole con cui rivolgerci a Dio, ma anche quando il credere si fa più intimo e profondo. Dunque, nel corso di tutta una vita. Perché esse, in realtà, non sono affatto una gabbia, ma una guida. Sono parole che nascono spesso direttamente dalla Scrittura, maturate nella Chiesa e vagliate dalla sua millenaria esperienza. Così, se il colloquio libero e diretto con Dio è fondamentale per tessere poco a poco il personale incontro con il Signore, è importante mantenere queste formule “fisse” nella nostra vita spirituale per tutta una serie di motivi. Anzitutto, perché esse ci riportano, ogni volta che le pronunciamo con raccoglimento e partecipazione, alla semplicità e alla essenzialità della nostra fede in rapporto a Dio, obbligando così il nostro io, spesso sovrabbondante e soverchiante, a contenersi e a scorrere entro argini sicuri e precisi. Ma anche perché possono fornirci un prezioso strumento cui aggrapparci nei momenti di aridità spirituale in cui nulla sembra più sgorgare dal nostro cuore e Dio appare molto lontano. Esse si rivelano allora come un piccolo sentiero da ripercorrere magari con fatica, parola dopo parola, ma che sappiamo portarci nella direzione giusta. Fino a quando, di nuovo, il Signore permetterà che ritroviamo “gioia piena” alla Sua presenza, “letizia senza fine” alla Sua destra. Preghiere vocali, a formula, abbiamo detto e colloquio intimo spontaneo e personale. Di quest’ultimo non diciamo molto perché tutti ne abbiamo esperienza. Forse conosciamo meno un’altra tappa della nostra vita spirituale. Quella in cui ogni parola sembra venir meno e la nostra anima, anzi tutto il nostro essere, si avvolge di silenzio. Quando, finalmente un po’ purificati dalla Grazia, riusciamo a porci tranquilli davanti a Dio, semplicemente ascoltandoLo. E’ un’esperienza che di solito si presenta spontanea ad un certo punto della nostra vita spirituale ma che possiamo favorire quando ne capiamo la necessità e il valore. Perché, se è cosa buona e necessaria aprire il nostro intimo con il Signore, “sfogarci” con lui, è certamente cosa ottima e indispensabile lasciarLo parlare perché la Sua voce, non soverchiata dalle nostre chiacchiere continue, possa rivelarsi al nostro cuore, illuminarlo, guidarlo, riscaldarlo, riempirlo dei suoi doni. Così, quando per grazia riusciamo a porci abitualmente in questo atteggiamento, ci rendiamo anche conto di come sia possibile “pregare in ogni momento”. Proprio perché pregare non è essenzialmente recitare orazioni, pur utilissime, e nemmeno parlare con Dio, gesto altrettanto importante, ma riservato ad alcuni momenti. Pregare è soprattutto entrare in una relazione con Dio che sia di ascolto continuo. E questo atteggiamento è possibile sempre, sia nei momenti in cui ci ritiriamo in un silenzio vero e proprio sia quando siamo nel mezzo delle occupazioni quotidiane e degli impegni professionali. Purché, vivendo abbandonati in Dio, lasciamo che il nostro intimo più profondo, quello in cui lo Spirito prega in noi e per noi, vegli e lavori. Quando, pur impegnati seriamente in ciò che stiamo facendo per condurlo al meglio, lasciamo aperto questo canale silenzioso ma operante di grazia. Quando il nostro spirito, docile a Dio, Lo accoglie, tacitamente ma realmente, nel profondo in ogni istante della propria vita. Quando, in una parola, diventiamo, nel cuore, dei “contemplativi”. In questo colloquio costante, in questa preghiera muta ma continua, ci capiterà allora di fare esperienza di come la nostra debolezza possa venire sostenute da Colui che è la vera Forza e il nostro cuore animato dalla carità di Colui che è il vero Amore.
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«Per chi ama Gesù, l’orazione, anche l’orazione arida, è dolcezza che pone sempre fine alle pene: si va all’orazione con l’ansia del bambino che cerca lo zucchero dopo aver preso la medicina amara».
(San Josemaría Escrivà, Cammino, n. 889).
IL TIMONE – N.59 – ANNO IX – Gennaio 2007 – pag. 56 – 57