All’alba del 18 aprile del 1947, nel cortile del tribunale di Bratislava, un uomo sulla sessantina, dalla corporatura massiccia, accompagnato da un frate cappuccino, saliva i pochi gradini di un patibolo, sul quale incombeva una forca.
Stando al comunicato delle agenzie di stampa, «solo sette minuti dopo il momento in cui la botola gli si è aperta sotto i piedi, l’espressione del condannato si è lentamente trasformata in un orribile rictus, mentre dalle sue mani cadeva la corona di un rosario che stringeva tra le mani».
Si era scelta l’impiccagione perché considerata più degradante della consueta fucilazione e si era fatto in modo che la morte non fosse immediata ma sopravvenisse tra tormenti e terrori. In effetti, come scrisse qualche giorno dopo l’Osservatore romano, ciò che i condannatori cercavano non era la giustizia ma la vendetta politica.
L’appeso alla forca era un sacerdote, monsignor Jozef Tiso, dal 1938 sino al 1945 era stato prima capo del governo e poi presidente della Repubblica Slovacca, riuscita finalmente a liberarsi dall’unione forzosa con la Cechia.
Se parliamo di lui è perché le poche, sbrigative righe che gli sono dedicate sui testi di storia, non solo italiani, fanno di questo prete un nazista, un collaborazionista zelante di Hitler, un fantoccio di uno Stato altrettanto fantoccio, interamente nelle mani della Germania.
Per la propaganda comunista – ma anche genericamente “progressista”, per non parlare di certo sedicente “cattolicesimo adulto” – la presenza di un sacerdote, per giunta non sconfessato dalla Gerarchia, ai vertici di un simile Paese è la conferma della solidarietà se non della simbiosi tra cattolicesimo e nazionalsocialismo. È un motivo in più per accusare la Chiesa di Pio XII di fiancheggiamento del regime hitleriano, anche perché papa Pacelli lo onorò con un breve quando fu eletto Presidente della Slovacchia. Ci sono buone ragioni, dunque, per vedere come stiano davvero le cose: non si tratta di un aneddoto secondario, che riguarda un Paese marginale ma di una ricerca di verità e di giustizia su una pagina di storia usata ormai da decenni in funzione anticattolica.
Naturalmente, il grottesco sta anche nel fatto che la “leggenda nera” su monsignor Tiso sia stata usata senza risparmio, e sempre con toni sdegnati, dalla Nomenklatura della Cecoslovacchia comunista.
Un regime, cioè, tra i più feroci e più allineati servilmente ai tiranni di Mosca. Capestro e infamia all’“amico” di Hitler e onore e gloria ai cortigiani di Stalin! Un ottimo pulpito, insomma, per fare prediche edificanti.
Rino Cammilleri, qualche anno fa, ha dedicato un articolo a don Tiso, sul mensile Studi cattolici: quell’intervento è uno dei pochissimi casi di rottura del silenzio su quanto avvenne nella Slovacchia, Paese così poco conosciuto da noi da essere spesso confuso con la Slovenia e che invece dovrebbe attrarre l’attenzione almeno dei cattolici.
In effetti, quel popolo nel cuore dell’Europa (il centro geografico del Continente cade in un suo piccolo villaggio) è un esempio di fedeltà coraggiosa, talvolta eroica, alla fede romana e ha sempre visto nella Chiesa la sola istituzione che gli ha permesso di salvare la sua identità, a cominciare dalla lingua. Non a caso, i primi e più importanti documenti letterari sono testi liturgici, traduzioni della Scrittura, vite popolari di santi. E, sempre non a caso, nei tempi moderni proprio degli ecclesiastici sono all’origine dell’autonomia e, infine, della libertà slovacca. All’inizio del XX secolo un prete, Andrej Hlinka, fondò il Partito Popolare che, tra l’altro, godrà poi dell’approvazione e dei consigli di don Sturzo. Don Hlinka era, e restò sino alla fine, un religioso venerato dal suo popolo non soltanto per l’attività politica ma anche per lo straordinario fervore di opere sociali e assistenziali da lui promosse. Fedele uomo di Chiesa e cattolico di ortodossia sicura, ispirò il suo partito alla dottrina sociale della Chiesa, escludendo ogni violenza e ogni estremismo ma chiedendo con fermezza libertà per la Slovacchia, asservita all’Ungheria nel sistema imperiale asburgico e sempre minacciata dai potenti vicini: la Russia, la Germania, la Polonia. Scoppiata la prima guerra mondiale, la Slovacchia seguì le sorti dell’Austria-Ungheria, anche se il desiderio di autonomia era tale che molti espatriarono nei Paesi dell’Intesa e formarono reparti che combatterono contro l’imperial-regia monarchia, anche sul fronte italiano.
Dopo la catastrofe, sulle rovine dell’impero defunto, i vincitori Alleati cercarono di isolare la Germania con la creazione di stati-cuscinetto e decisero l’unione della Slovacchia – liberata finalmente dagli ungheresi, che arrivavano a imporre i loro vescovi – con la Cechia, creando l’artificiosa Repubblica di Cecoslovacchia. Una convivenza sopportata con fatica dalla Slovacchia, anche perché il suo solido cattolicesimo di paese ancora rurale era insidiato dalla Boemia, la terra di Jan Hus e della massoneria, tanto forte a Praga da essere all’origine dell’unione imposta. Giunse però il ciclone nazista che, nella sua brutale politica di espansione, con la tolleranza dell’Europa “democratica”, fagocitò la zona dei Sudeti, di lingua tedesca, e impose il suo dominio a quanto restava della Cechia, trasformata nel “Protettorato di Boemia e di Moravia”.
Nel frattempo, morto – tra l’universale compianto – mons. Hlinka (stimato anche dalla Santa Sede, al punto di essere nominato protonotario apostolico), la responsabilità del Partito Popolare Slovacco passava all’ancor giovane Jozef Tiso, detto da tutti “monsignore” anche se, non amando gli onori, aveva rifiutato di accettare il titolo concessogli motu proprio dal Papa. Laureato in teologia, di vita e di pensiero inappuntabili – sino alla fine, all’impegno politico volle unire la responsabilità pastorale di una piccola parrocchia, per mostrare che era e restava innanzitutto prete – Tiso era di lontana origine veneta. Convocato da Hitler che stava distruggendo la Cecoslovacchia, gli furono prospettate tre possibilità: o la Slovacchia sarebbe stata invasa anch’essa dai nazisti e trasformata in Protettorato o la si sarebbe smembrata tra i suoi vicini, oppure avrebbe proclamato immediatamente la sua indipendenza che la Germania avrebbe rispettato, visto che ai tedeschi non interessava quel territorio, povero, privo di industrie e per giunta profondamente slavo e, come tale, svalutato dai razzisti “ariani”. Monsignor Tiso espose le drammatiche alternative hitleriane al governo e al parlamento provvisori slovacchi che, nel frattempo, si erano formati e l’assemblea votò all’unanimità per l’indipendenza. E lo fece al più presto perché sul Danubio – Bratislava è di fronte a Vienna – battelli da guerra tedeschi puntavano i cannoni contro i palazzi pubblici: Hitler aveva fretta che scomparisse l’ultimo brandello della Cecoslovacchia. Seppure nata dal ricatto nazista, la Slovacchia libera sorgeva da una lunga e profonda passione popolare e non si trattava, dunque, di uno Stato artificioso, come
dimostra anche il fatto che fu subito riconosciuto da buona parte dei Paesi del mondo, compresa la Santa Sede e l’Unione Sovietica, e che la Costituzione approvata dal parlamento proclamava, sin dal primo articolo, la sovranità di Dio, la fedeltà al cattolicesimo, il rispetto dei diritti umani.
Non solo lo Statuto, ma tutta la legislazione si ispirava esplicitamente ai principi cristiani. Per dirla con le parole di Milan S. Durica, già docente di storia dell’Europa orientale all’università di Padova e ora all’università di Bratislava, «un fatto, tra molti altri, può contribuire alla giusta valutazione del profilo morale della dirigenza politica della repubblica presieduta da Tiso: in tutti i sei anni della sua durata, nonostante l’emergenza del tempo bellico, non vi fu eseguita una sola esecuzione capitale. Il rispetto della vita umana era considerato superiore agli stessi interessi supremi di uno Stato in guerra». Colui che sarà appeso dai comunisti a una forca come capo di un “regime sanguinario” in realtà non uccise mai nessuno e fece ogni sforzo per adeguarsi il meno possibile alle pressioni del terribile vicino e svuotarne le pretese di imporre direttive. Con realismo cristiano, Tiso – messo spalle al muro da un Diktat: o indipendenza e alleanza o occupazione militare – scelse la strada del male minore, convinto che una Slovacchia costituita in Stato proprio avrebbe avuto qualche possibilità di manovra. Confidò più volte che era sceso in politica per necessità, sospinto dal bisogno della sua patria molto amata e sempre calpestata, ma avrebbe preferito di gran lunga seguire la sua vocazione sacerdotale all’attività pastorale. Come si diceva, in effetti, non abbandonò mai la responsabilità di una parrocchia ed esercitò, con assoluta discrezione, una generosa carità verso i tanti bisognosi. Più volte fu strapazzato da Hitler, che detestava ogni prete e più che mai questo, che considerava ambiguo e infido: se ne sarebbe liberato volentieri, ma nessun altro godeva tra il suo popolo di tanto prestigio e carisma. Una sua sostituzione, o magari esecuzione, avrebbe determinato una rivolta che la Germania non si poteva permettere, anche per proteggere le vie di comunicazione militare verso l’Ucraina. A Bratislava, capitale dello Stato, erano quotidiane le lagnanze dell’ambasciata tedesca per la politica locale, considerata “remissiva e blanda”. Così al sacerdote, Presidente della Repubblica,
i nazisti riuscirono a contrapporre ministri del suo governo infiltrati come uomini di fiducia del regime hitleriano. Tiso, poi, doveva fronteggiare non solo la fronda interna dei collaborazionisti ma anche la grossa e influente minoranza tedesca, da secoli insediata nei confini slovacchi (la stessa Bratislava ha un nome tedesco, Pressburg) e passata al fiancheggiamento esplicito del nazismo.
Malgrado questo, il Governo e il Parlamento (che fu in funzione sino all’ultimo, così come sino all’ultimo fu rispettata il più possibile la democrazia proclamata dalla Costituzione, nonostante le tentazioni autoritarie) cercarono di praticare la dolorosa strada del male minore anche per quanto riguarda la questione ebraica. Non essendo possibile ignorare le minacciose pressioni tedesche, ci si rifiutò comunque di accettare la teoria razziale, biologica di Hitler, incompatibile con la prospettiva cristiana: dunque, la definizione di “ebreo” si basava soltanto sull’appartenenza religiosa. Non fu un bizantinismo ipocrita, ma una misura che permise di limitare, almeno, le dimensioni della tragedia. Dicevamo che, se la Slovacchia non si fosse proclamata indipendente, sarebbe stato trasformata in Protettorato del Reich, come la Boemia e la Moravia: ebbene, lì non ci fu scampo per nessun ebreo e la deportazione fu pressoché totale. Non così nella Repubblica presieduta da monsignor Tiso. Ancora nel 1942, si stabilì che non potevano essere considerati “ebrei” e, dunque, deportati coloro che avessero chiesto il battesimo prima del 1939. Una decisione che cozzava direttamente con la politica razziale tedesca, per la quale l’ebraismo era un marchio indelebile che nessuna acqua sacramentale poteva lavare: dunque, discriminazioni e persecuzioni si applicavano a chiunque avesse una discendenza giudaica. Ma c’era di più: la legge voluta da mons. Tiso esentava da ogni misura persecutoria non soltanto gli ebrei battezzati ma anche i membri delle loro famiglie – coniugi, figli, genitori – anche se non divenuti “cristiani”.
Si salvavano poi pure gli ebrei che avevano contratto matrimoni misti: anche qui, in chiaro contrasto con la Germania. Si creò poi la figura passe-partout dello slovacco “appartenente a categorie essenziali”, che permise di inserire nelle liste dei non perseguibili migliaia e migliaia di ebrei (loro famiglie comprese) con il pretesto che la loro mancanza avrebbe danneggiato il Paese. Una simile legislazione provocò, ovviamente, l’ira di Berlino ma – malgrado l’ambiguo governo, infiltrato dai nazisti – si riuscì a farla rispettare, quasi sempre, grazie soprattutto alla fermezza e all’autorità di monsignor Tiso. Giustizia, poi, impone di ricordare che – come è stato stabilito dalle ricerche storiche – gli slovacchi, governo compreso, ignoravano che la deportazione dei “loro” ebrei aveva come destinazione i lager e lo sterminio. I tedeschi parlavano di “trasferimento”, di “reinsediamento” in zone della Polonia messe a disposizione dei “traslocati” perché vi si organizzassero e, pur separati dagli “ariani”, vivessero in modo umano e autonomo. I guai maggiori, comunque, vennero dalla insurrezione dell’autunno del 1944 che il regime comunista trasformerà poi in un mito eroico sul quale basare la sua legittimità. In realtà, quella rivolta non fu di popolo – questo, sino alla fine, fu dalla parte del suo presidente in talare – ma fu opera delle truppe paracadutate dall’Armata Rossa che si unirono ai pochi comunisti locali.
Poiché capita ancora di leggere descrizioni epiche di quella presunta rivolta, sarà bene riportare quanto osserva Milan S. Durica che già citammo: «L’insurrezione non liberò la Slovacchia dalle ingerenze dei tedeschi ma, al contrario, provocò l’occupazione militare da parte di questi; non rovesciò il governo di Bratislava ma lo rese ancor più debole di fronte alla prepotenza tedesca; ridusse il Paese a zona di operazioni belliche della Wehrmacht e dell’Armata Rossa. I danni materiali e spirituali provocati da quella presunta “gloriosa insurrezione”, in realtà tesa a preparare il futuro regime comunista, furono incalcolabili».
Tra quei danni, anche il fatto che gli ebrei rimasti in Slovacchia furono alla mercé dei tedeschi che completarono la cattura di quelli che erano rimasti e che non ebbero il tempo di essere nascosti dai cattolici, impietositi dalla loro sorte. Insomma il caso slovacco non mancò certo di limiti, di difetti, di colpe ma dimostra una volta di più che il realismo cristiano (che scandalizza le “anime belle”, desiderose di intransigenza e di ideali proclamati sempre e comunque, quali che siano le conseguenze: sugli altri, ovviamente) sa confrontarsi con i fatti e non con le teorie, facendo di tutto per limitare le dimensioni di un disastro come il nazionalsocialismo, per battere il quale occorsero sei anni di lotta e la coalizione dei più potenti Paesi del mondo. Il rifiuto della indipendenza della Slovacchia perché garantita da Hitler o le dimissioni sdegnate di mons. Tiso e dei membri del governo che condividevano la sua linea di salvare il salvabile avrebbero provocato conseguenze ancor più disastrose per tutti, ebrei compresi.
Quando giunse la fine, il sacerdote fu tradito da tutti, a cominciare dagli americani: spostatosi con il suo governo in Austria di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa (cui gli stessi americani permisero di occupare tutta l’Europa centrale, come da accordi con Stalin) e alla fine catturato dall’esercito Usa, fu da questi consegnato ai russi.
Eppure, si sapeva bene quale sarebbe stata la sua sorte: ma non dimentichiamo che americani e inglesi consegnarono a Stalin anche le centinaia di migliaia di ucraini che, per rivolta contro il regime comunista, si erano arruolati con i tedeschi. Di quei “traditori” i russi fecero macello. Tradotto davanti a un “tribunale popolare” a Bratislava – le foto lo mostrano nel clergyman da prete romano che non aveva mai abbandonato – a mons. Tiso fu comminata la condanna all’impiccagione, già stabilita in anticipo. Importante, comunque, che quel tribunale fazioso non prese in considerazione, considerandole dunque false, le molte calunnie sulla sua vita privata, tra cui quella di avere una figlia. Il condannato concluse il suo testamento spirituale scrivendo: «Muoio come testimone della legge naturale data da Dio a ciascun popolo di promuovere la sua libertà e come difensore della civiltà cristiana contro il comunismo». In effetti, il comunismo fu rifiutato a schiacciante maggioranza dalle prime, libere elezioni del popolo slovacco al quale, però, fu reimposta l’unione con la Cechia, dove gli amici di Mosca erano più numerosi. Non abbastanza, però, da andare al potere con il suffragio democratico. Alla fine Stalin, spazientito, diede ordine di organizzare il colpo di Stato del 1948 che permise ai comunisti di imporre una delle peggiori tirannie dell’Est, con un accanimento particolare nei riguardi dei credenti. Quando il regime cadde, gli Slovacchi poterono realizzare il sogno che era stato di Jozef Tiso: una Slovacchia piccola, povera ma indipendente, padrona in casa propria. E, soprattutto, chiamata a vivere un tempo ben diverso da quello del ferro e del fuoco che attraversò, rimanendone travolto, il parroco costretto a reggere le redini di un potere politico di cui avrebbe ben volentieri fatto a meno. È significativo: per ben cinque volte espresse il desiderio che un’autorità ecclesiastica superiore, foss’anche solo il suo vescovo, gli chiedesse di lasciare la carica statale. Si volle invece che restasse. Restò, in effetti, per spirito
di obbedienza, ben sapendo che ciò gli sarebbe costato la vita, che aveva offerta al suo popolo.
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 64 – 66