Esistono ancora partiti politici e paesi che si ispirano al comunismo, nemico della proprietà privata. Ma questa si può giustificare e conciliare con la destinazione universale dei beni, che Dio ha creato per tutti.
Poiché ci sono ancora partiti politici che si dichiarano comunisti e paesi (Cuba, Cina, Corea del Nord) che sono ancora sotto il tallone di quest’ideologia disumana, può essere utile ricordare quali siano i motivi che giustificano la proprietà privata, combattuta dal comunismo.
La fondazione della proprietà privata
Come diceva il filosofo John Locke (1632-1704), mediante il lavoro, l’uomo riesce a trasformare la terra e a farne la sua degna dimora: in tal modo egli fa propria una parte della terra, e appunto la acquista col lavoro. È questa l’origine della proprietà individuale.
In fondo anche Marx, che pur voleva l’abolizione della proprietà, diceva che con il lavoro l’uomo trasforma la natura nel prolungamento del suo corpo. Ora, per ogni uomo, prosegue Locke, «il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani sono propriamente suoi. A tutte quelle cose, dunque, che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il suo lavoro, ha cioè unito qualcosa che gli è proprio, e ciò le rende proprietà sua» (Trattati sul governo civile, II, cap. V, 27).
Utilità della proprietà privata
1) In tal modo, la proprietà privata e le altre forme di possesso privato dei beni «assicurano ad ognuno lo spazio effettivamente necessario per l’autonomia personale e familiare, e devono essere considerati come un prolungamento della libertà umana. Costituiscono in definitiva una delle condizioni delle libertà civili» (Gaudium et spes, 71). Dalla proprietà provengono al soggetto possessore una serie di vantaggi: condizioni di vita migliori, sicurezza per il futuro, più ampie opportunità di scelta.
2) Come dice Aristotele (per le seguenti citazioni cfr. Politica, II) «due sono infatti le cose che portano gli uomini a preoccuparsi e ad amare: ciò che è proprio e ciò che è caro: ora, né l’uno né l’altro si trovano nei cittadini di uno Stato» dove tutto è in comune. In effetti, «di quel che appartiene a molti non si preoccupa nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, [vi badano] nei limiti del loro personale interesse: piuttosto se ne disinteressano […] perché suppongono ci pensi un altro». Se poi in comune sono addirittura i figli «per ogni cittadino ci sono un migliaio di figli […] con la conseguenza che tutti ugualmente se ne disinteressano». Invece, l’amore paterno, sentimento che porta i padri a prendersi cura dei propri figli, moltiplica in loro la capacità di lavorare e di risparmiare. È naturale che un padre ed una madre non riescano mai a fare per i figli degli altri neanche una piccola parte di quello che fanno per i propri figli. In tal modo, l’amore paterno è un fermento potente che lavora in favore del bene comune, e non contro di esso.
3) A chi sostiene che l’abolizione della proprietà privata porti la concordia perché fa svanire le gelosie, a chi denuncia come causa dei mali esistenti negli Stati la mancanza di una comunanza delle sostanze, Aristotele risponde che «il vero motivo [delle discordie] non è la mancanza di collettivizzazione, ma la cattiveria umana, perché anche quelli che hanno i beni in comune e li mettono in comune, vediamo che vengono in contrasto molto di più di coloro che hanno proprietà private», cioè discordano sulla gestione delle cose comuni. A noi sembra che siano pochi quelli che dalla collettivizzazione dei beni traggono motivi di contrasto, ma (dice sempre Aristotele) ciò è solo perché sono pochi quelli che hanno beni in comune, quindi sono poche le discordie, mentre sono molti quelli che possiedono proprietà private; ma se fossero molti quelli con beni in comune le lacerazioni aumenterebbero clamorosamente.
4) Inoltre, dice sempre Aristotele, se anche i figli e le donne sono in comune e vengono affidati allo Stato (cfr. Platone e Rousseau), alla lunga i nuovi nati non sapranno più di chi sono figli e avranno rapporti incestuosi con i loro consanguinei, con quel che ciò significa, anche per la salute.
5) Quanto alla la divisione del lavoro (che Marx voleva eliminare), è utile per almeno due ragioni. La prima, perché, come dice Tommaso, «le cose umane si svolgono con più ordine, se ciascuno ha il compito di provvedere qualche cosa mediante la propria industria: mentre sarebbe un disordine se tutti indistintamente provvedessero ad ogni singola cosa» (Somma teologica, II-II, q. 66, a. 2); la seconda, perché mediante la specializzazione ognuno può più efficacemente svolgere il proprio lavoro, a vantaggio di tutti.
Ma se la proprietà privata è legittima per il fatto che un uomo l’ha acquistata con il suo lavoro, a che titolo è invece legittima l’eredità o la donazione? Chi riceve i beni non li ha acquistati col proprio lavoro. Rispondiamo in questo modo.
1) Anzitutto, la giustificazione dell’eredità/donazione sta nel fatto che se ciascuno può disporre dei propri beni, deve poterli lasciarli a chi vuole.
2) Inoltre, per quanto riguarda l’eredità ai figli, come dice Aristotele, i figli sono la continuazione dei genitori: «i genitori amano i figli come se stessi, giacché i figli nati da loro sono come altri se stessi» (Etica Nicomachea, 1161b 27-28).
3) Infine, è vero che molti uomini non ereditano nulla, ma la soppressione dell’eredità farebbe decadere molta energia della produzione, perché i padri hanno meno interesse a produrre beni e ad investire energie e risorse se sanno che il frutto dei loro sforzi non andrà a beneficio dei figli, bensì di chiunque. Ora, ciò non andrebbe a beneficio di coloro che non ereditano nulla, bensì diminuirebbe la produzione generale di beni, aumentando il numero dei diseredati.
Dalla proprietà, d’altro canto, può provenire anche una schiavitù. L’uomo o la società che giungono al punto di assolutizzarne il ruolo finiscono per cadere in una radicale schiavitù. Nessun possesso, infatti, può essere considerato indifferente per l’influsso che ha tanto sui singoli, quanto sulle istituzioni: il possessore che idolatra i suoi beni (cfr. già Socrate; Mt 6,24; 19,21-26; Lc 16,13) ne diventa succube e asservito.
La destinazione universale dei beni
In effetti, i beni sono di proprietà di Dio Creatore, perciò, propriamente parlando, l’uomo non ne ha la proprietà bensì il possesso, l’usufrutto. Dunque li deve finalizzare allo scopo per cui Dio li ha previsti, cioè al bene comune, rendendoli strumenti utili alla crescita degli uomini e dei popoli. Insomma, il diritto alla proprietà privata non è assoluto ed intoccabile e c’è un «diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata va subordinato […] alla destinazione universale dei beni» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 14).
Il principio della destinazione universale dei beni afferma sia la piena signoria di Dio su ogni cosa, sia l’esigenza che i beni del creato rimangano finalizzati e destinati allo sviluppo di tut-to l’uomo e dell’intero genere umano: la singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, bensì deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune. La destinazione universale richiede di coltivare un’economia in cui la creazione di ricchezza possa avere delle ricadute sociali positive.
Così, il furto è grave, perché è l’usurpazione di un bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario; ma la destinazione universale comporta che non sia un furto un’appropriazione di beni altrui da parte di chi si trova in una situazione di necessità grave e urgente, in cui l’unico mezzo per soddisfare bisogni immediati ed essenziali (nutrimento, rifugio, indumenti) sia di disporre e di usare beni altrui (Catechismo, n. 2408).
Fermo restando che in certi casi non si è moralmente colpevoli di tale situazione (cfr. per es. la situazione di terribile disoccupazione dopo il crollo di Wall Street del 1929), ma in altri sì (per es., alcuni mendicanti che si rifiutano di lavorare).
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2401-2449.
Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 171-184.
Aristotele, Politica, libro II.
IL TIMONE – N.60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 30-31