Come far incontrare Gesù Cristo all’uomo di oggi? Dieci anni fa nasceva il “progetto culturale” della Chiesa italiana. Ma il cammino da fare è ancora lungo. L’esperienza positiva dei Movimenti è una via da percorrere.
Nel febbraio scorso, in Borneo, ho chiesto a don John Chong, parroco fra i “dayak” (i famosi “tagliatori di teste” di Salgari), 130 km a sud di Kuching (Sarawak): “Perché questi tribali delle foreste si convertono?». Risposta immediata: «Incontrano Gesù Cristo e la loro vita cambia».
Forse sono un ingenuo, ma quel giovane prete mi ha folgorato. Ho pensato: ma guarda, questi partono da zero, incontrano Cristo e si convertono con entusiasmo; in Italia, dopo duemila anni di cristianesimo, chissà se la “nuova evangelizzazione” riesce a realizzare questo primo compito: far incontrare le persone con Cristo!
Sono passati dieci anni da quando il cardo Camillo Ruini lanciava il “Progetto Culturale” della Chiesa italiana.
L’idea è geniale: la fede non si vive in ambienti chiusi, ma in mezzo alla gente comune, nella cultura comune, ormai in gran parte creata dai mass media e dalla televisione. Forse il termine “cultura”, esatto nella sua accezione più alta, era poco indicato per delineare il progetto. Molti hanno immaginato qualcosa di élite, dibattiti, approfondimenti che riguardano università e facoltà teologiche. AI “III” Incontro nazionale del Progetto Culturale” (Roma, 11-13 marzo 2004) si è stabilito che bisogna “rendere il Progetto Culturale un fatto di popolo e non più di élite, abbassare i ponti levatoi dei centri di cultura (cattolici) e renderli capaci di interessare le persone comuni, coinvolgerle in una iniziativa o l’altra, appassionarle, metterle in cammino” (Francesco Ognibene, “Avvenire” 14 marzo 2004). Mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, ha detto che il Convegno ecclesiale di Verona (ottobre 2006) avrà due temi centrali: “La missione e la cultura, cioè l’azione pastorale e l’edificazione della coscienza nel confronto con i fenomeni del nostro tempo».
Nella Chiesa italiana, quando si dice “missione” quasi sempre si intende l’azione pastorale per rievangelizzare il nostro popolo battezzato al 98%, che nella quasi totalitàsi dichiara cattolico. Ma se allarghiamo lo sguardo alle Chiese che stanno nascendo oggi, dove l’azione dello Spirito quasi si tocca con mano, viene fuori quello che diceva John Chong: i dayak “incontrano Gesù Cristo e si convertono”. Giovanni Paolo Il non cessa di ripeterlo fin dall’inizio del suo Pontificato (“Aprite le porte a Cristo!”) e dalla prima Enciclica “Redemptor hominis”. Non è facile far incontrare i distratti uomini del nostro tempo con la persona di Gesù. Il Papa si è affidato alla fede dei semplici, alla Madonna e ai santuari mariani, ai martiri e ai santi (li ha moltiplicati in misura incredibi¬le!), alle devozioni popolari e ai “movimenti ecclesiali” sorti nell’ultimo mezzo secolo, quando è andata in crisi la fede. Il Papa (tutti i Papi naturalmente!) ha riaffermato con forza il primato della fede, non dico sulla teologia ma certamente sulla tentazione di razionalizzare la fede: in un tempo come il nostro am¬malato di “intellettualismo”, ha accolto “Gesù in mezzo” di Chiara Lubich, “Aderire a Cristo” di don Giussani, la dura scuola di iniziazione dei neo-catecumenali di Kiko Arguello, il fantasioso e movimentato “Rinnovamento dello Spirito”: esperienze che hanno limiti e difetti e che non vanno assolutizzate, ma che indicano alla Chiesa alcune delle vie da percorrere. Noi che abbiamo vissuto l’Azione Cattolica mezzo secolo fa, quando entusiasmava e formava schiere di cristiani impegnati, le auguriamo di ricuperare quella carica di fede e di missione che la renda ancora capace di quei prodigi.
“La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi” (Redemptoris Missio, II). Dopo mezzo secolo che visito le giovani Chiese, a me pare che in Italia occorre ritornare al “primo annunzio” di Cristo, come nelle missioni fra i non cristiani. Bisogna tornare a parlare di Gesù, Figlio di Dio e unico Salvatore dell’uomo, riferendo a Lui tutti i problemi della vita personale e sociale. «Il problema più grave della Chiesa oggi, ha detto il cardo Ratzinger (“Famiglia cristiana”, 2004, n. 6), è la difficoltà di credere…; e cita la tendenza a pensare che «tutte le religioni si equivalgono” e a considerare «superbia il pensare che realmente abbiamo ricevuto dal Signore la verità… Si assiste così ad una perdita silenziosa della fede, senza grandi proteste, in gran parte della cristianità”. Nella cultura comune in Italia sono crollate le certezze di fede che sostengono noi di una certa età fin dalla giovinezza. Come ricostruirle? “Hanno incontrato Cristo e si sono convertiti”. La pastorale ha proprio questo scopo, stiamo tentando di arrivarci soprattutto per mezzo dell’intelletto, forse trascurando la via del cuore.
Un’espressione significativa che ho sentito più volte in Giappone, usata anche dai vescovi, è “la pastorale del cuore”. I giapponesi, dicono, si convertono poco perché i nostri ragionamenti non li smuovono; si avvicinano a Cristo quando sentono il “kimochi” per Lui, cioè l’emozione di incontrare il Figlio di Dio che ha dato la sua vita per noi. Il provinciale dei Francescani Conventuali, padre Pietro Sonoda, vissuto otto anni in Italia, mi diceva nel settembre 2002: «In Giappone il Vangelo è uno dei libri più letti perché racconta fatti e parabole… I documenti della Chiesa, anche dei Papi, sono basati su ragionamenti, non su fatti concreti. Quando vengo in Italia e sento le omelie che i preti fanno alle Messe domenicali penso: se parlassero così in Giappone, nessuno li ascolterebbe.
Quale “progetto culturale”? Domanda a cui non è facile rispondere. Un’ultima indicazione la dà il grande don Divo Barsotti, che ha scritto (“Il Focolare. Mensile dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa”, Firenze, aprile 1999, pago 6): “Gran parte della predicazione cristiana non ha più successo perché è diventata come la dottrina, non è più una testimonianza di vita. Negli Apostoli, ma anche nei grandi sacerdoti che ha avuto la Chiesa, la parola non era soltanto la trasmissione di una dottrina concettuale, ma testimonianza di una vita nuova che il sacerdote e il cristianesimo portano nel mondo. Troppo spesso siamo ripetitori di luoghi comuni o anche di cose grandi (poche), ma ripetere soltanto non basta all’efficacia del ministero. Quello che si impone oggi per il sacerdote è di rendersi credibile e questo vuoi dire per lui credere veramente. Cercando di essere uguali agli altri perdiamo di credibilità e di efficacia”.
RICORDA
“La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa irradia”.
(Giovanni Paolo Il, Lettera enciclica Redemptor hominis, 1979, n. 13).
IL TIMONE – N. 34 – ANNO VI – Giugno 2004 – pag. 12 – 13