L’odio contro la religione contagiò numerosi russi nella rivoluzione del 1917. L’«uomo nuovo» contro l’«uomo reale» nel nome dell’ideologia. Come i dissidenti hanno cominciato a ricostruire una presenza «umana» nella patria del socialismo.
Sin dai primi mesi della rivoluzione d'ottobre si verificò un fatto abbastanza sorprendente: una parte del popolo russo, tradizionalmente conosciuto per la sua mansuetudine e il timor di Dio, si scatenò dimostrando d'esser capace di vera ferocia, e soprattutto di odio contro la religione. Pur riconoscendo che l'ispirazione a compiere certi atti venisse dalle forze politiche, in particolare dai bolscevichi, bisogna ammettere che quella parte del "popolo ortodosso" in pochi mesi arrivò senza troppe remore a saccheggiare le chiese, abbattere le campane, bruciare le icone e fare giustizia sommaria dei preti.
Questo è un primo, scioccante cambiamento subìto dal popolo russo in seguito alla rivoluzione, e possiamo identificarne le cause in almeno due elementi di ordine generale: da una parte l'illusione (instillata dall'intelligencija) che ogni male o ingiustizia potesse essere risolto con la forza, e dall'altra l'ubriacatura della violenza come tale, che tende spontaneamente a diffondersi per imitazione.
Ma questo primo cambiamento era ancora qualcosa di superficiale, che non toccava i fondamenti stessi dell'io. Successivamente, con il definitivo assestarsi del regime totalitario, sarebbe stato fatto un esperimento sull'umano assolutamente senza precedenti, e molto ambizioso: creare l'«uomo nuovo».
Nel suo colossale progetto totalitario di trasformazione della realtà, a partire dai pilastri dell'economia e dello Stato, Lenin ebbe un'attenzione particolare per la coscienza individuale, convinto com'era che solo agendo su di essa le trasformazioni strutturali sarebbero divenute irreversibili. Per questo si impegnò da una parte a togliere all'individuo ogni supporto spirituale e morale, ogni fonte di valori tradizionali, alternativi a quelli "di classe", e dall'altra a imporgli come unico orizzonte e punto di riferimento l'ideologia e i suoi dogmi. Le direttive di attacco su cui Lenin si mosse parallelamente fra l'agosto 1921 e l'agosto 1922 furono la cultura accademica (quelli che lui chiamava "i professori"), le Chiese, l'arte; gli strumenti che usò sin dall'inizio furono il terrore poliziesco e la propaganda, concepiti come strettamente complementari.
L’attacco alla persona passò attraverso l'eliminazione della proprietà privata, l'introduzione della censura, l'attacco alla famiglia e persino all'abitazione, la statalizzazione dell'istruzione, l'introduzione di una nuova Costituzione (che prevedeva l'esistenza di cittadini "senza diritti") e di un nuovo Codice penale (che considerava punibile non il reato, ma la sua "potenzialità"). In generale, il nuovo Stato richiese ai cittadini coinvolgimento e lealtà totali, impose una visione del mondo obbligatoria, cosi che tutto diventò "politico", ossia rientrò nella sfera di interesse dello Stato: dalla morale alla famiglia, dal tempo libero al lavoro. L’individuo, privato di ogni punto di riferimento, si trovò da solo a sostenere la pressione enorme dello Stato, e questa guerra interiore e psicologica non poteva che finire con la capitolazione. Questo travagliato processo di omologazione, che rappresentò un dramma insieme individuale e collettivo, è rispecchiato in modo particolarmente lacerante nel destino di molti intellettuali. Tra di loro, negli anni '20 e '30 del secolo scorso, troviamo tutte le sfumature del compromesso, dal servilismo di un Gor'kij (che nonostante la naturale bontà d'animo lodò pubblicamente l'istituzione dei lager), all'aridità di un Babel' (che esaurì nello sforzo di adesione la propria vena creativa), al suicidio di un Majakovskij.
Fu così che iniziò la lenta ma radicale trasformazione dell'uomo russo in "homo sovieticus", trasformazione programmata dall'alto, che nelle intenzioni doveva essere radicale e permanente, e doveva produrre un essere "ontologicamente" nuovo e funzionale alla realtà politica. Fu negli anni '30, con la leadership di Stalin, che il processo si ritenne sostanzialmente concluso, e il suo trionfo trovò espressione in un episodio simbolico nella sua tremenda disumanità: nel 1930, un dodicenne di nome Pavlik Morozov denunciò il padre come "nemico di classe" e lo fece fucilare. Pur ammettendo che l'episodio non sia reale ma frutto di propaganda (come alcuni studiosi ipotizzano oggi), resta il fatto significativo che doveva essere avvenuta una grave catastrofe umana perché si potesse tranquillamente proporre a un'intera nazione come modello di uomo nuovo questo piccolo mòstro inconsapevole, per il quale non esistevano nemmeno i legami familiari. Ovunque, nelle città e in provincia, strade, piazze, stadi e palazzi dei pionieri vennero dedicati al "piccolo eroe socialista", e nessuno levò una parola di protesta.
L’andamento di questo processo di disgregazione dell'uomo non fu lineare come potrebbe sembrare, e come i vertici del Paese credevano. Accaddero in realtà alcuni fatti macroscopici a testimonianza che i sentimenti profondi della popolazione, come il senso di carità o l'at-taccamento alla fede, erano duri a morire, nonostante tutti gli sbandamenti e le cadute che si erano manifestati con lo scoppio della violenza rivoluzionaria. Uno di questi fatti fu il censimento del 1937, nei cui questionari Stalin in persona volle inserire una domanda sulla fede religiosa (che mancava nel precedente censimento del 1926). Probabilmente voleva constatare de visu la vitto-ria dell'ateismo di Stato, ma la risposta della popolazione fu sorprendente: nonostante gli evidenti rischi (si era in pieno terrore staliniano) il 56,7% della popolazione si dichiarò credente. E tuttavia, nel complesso, la progressiva frantumazione dell'uomo procedette comunque, resa ancora più devastante dalla presenza quotidiana della violenza, che non era più l'accidentale scoppio incon-sulto dell'irrazionale, ma era una realtà "normale", metabolizzata come necessaria e progressiva. La presenza ossessi va della violenza e l'impossibilità di giudicarla per quello che era fece molto nello scardinare la normale percezione della realtà in milioni di persone; il risultato furono intere generazioni di cittadini interiormente menomate dalla paura, dalla convinzione di non avere diritti né dignità, dalla fede puerile nel Partito, dall'abitudine a delegare ogni decisione. Questo svuotamento dell'uomo spiega come mai gran parte della popolazione sovietica abbia fondamentalmente accettato l'ondata del terrore, collaborandovi spesso con le delazioni e il sospetto; e spiega anche come mai si siano trovate le migliaia di aguzzini, poliziotti, giudici necessari a governare l'immenso apparato repressivo.
Tutto l'enorme sforzo applicato per decenni aveva finito per produrre un cambiamento "quasi" (ed è un quasi importante) irreversibile nell'essere umano, di certo aveva deteriorato gravemente i normali meccanismi psicologici, il rapporto con la realtà, il senso di responsabilità, gli impulsi creativi, l'attaccamento alla memoria, persino le capacità affettive. In una parola, aveva quasi distrutto l'io.
Nell'ultima fase della storia dell'URSS, dalla morte di Stai in alla fine del regime comunista, la creazione dell'homo sovieticus invece di fermarsi si era ulteriormente perfezionata, arricchendosi di nuovi tratti come "il doppio pensiero" (dico una cosa e ne penso un'altra), l'inaffidabilità, la cor-ruzione. A partire dagli anni '60 era diventato proverbiale in tutto il mondo occidentale il prototipo dèl cittadino sovietico conformista e irresponsabile, che non sa cosa sia il lavoro. In quegli stessi anni, però, quasi si fosse toccato l'ultimo limite, miracolosamente gli ultimi resti dell'io umano cominciarono a riprendere vita attraverso il fenomeno del dissenso. I dissidenti sovietici avevano incominciato per primi a mettere a fuoco il problema centrale, che riguardava esattamente quello che Lenin aveva cercato di distruggere, e cioè l'io. Il primo passo era stato quello di discernere l'invadenza dell'ideologia dentro di sé: «L’ideologia comunista non era per noi qualcosa di esterno, di imposto con la forza; al contrario, si era annidata nel profondo della nostra coscienza e l'alimentava, informando un ordine che regolava tutti gli aspetti della vita sovietica. E che ci appariva inconfutabile, addirittura naturale» (V. Shentalinskij).
Secondariamente, si era trattato di riconoscere la propria connivenza con questo stato di cose: «lo disprezzavo l'uomo sovietico. Non quello raffigurato sui manifesti ma quello vero, reale, privo di onore, di orgoglio, di senso di responsabilità… La tragedia è che risiede in ognuno di noi, e finché non riusciremo a vincere dentro di noi quest'uomo sovietico, nulla muterà nella nostra vita» (V. Bukovskij).
Il vero fatto nuovo portato dai dissidenti è stato dunque la metanoia, il cambiamento di sé. Questa presa di coscienza personale, che veniva prima di qualsiasi progetto politico e di qualsiasi protesta, è stata l'elemento decisivo che ha rimesso in moto la storia sovietica avviandola verso il rapido declino. Dopo l'esperienza orribile del materialismo applicato alla vita della nazione, il dissenso ha puntato su una cultura centrata sull'uomo, e che riconosceva allo spirito il primato assoluto. Senza il dissenso, probabilmente, il regime sovietico avrebbe potuto proseguire ad oltranza con gli aggiustamenti e le razionalizzazioni. Invece in tre decenni di opposizione inerme, i dissidenti hanno verificato sperimentalmente che «l'autocoscienza dell'uomo determina il volto delle epoche» (L. Regel'son), e che l'io è il vero antidoto al totalitarismo più subdolo e invasivo.
CRISTIANESIMO E MARXISMO A CONFRONTO
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L’uomo ha un’anima immortale |
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Dossier: Considerazioni sul Comunismo
IL TIMONE – N. 36 – ANNO VI – Settembre/Ottobre 2004 – pag. 36 – 38