Sembrerà strano che in una rubrica sullo spazio sacro ci si ritrovi a leggere del Carnevale. No, non intendo parlare delle sbiadite albe di stoffa sintetica che quasi sempre rivestono i nostri sacri ministri quando si accostano al Sacrificio, sebbene queste assomiglino così tanto per taglio e qualità ai vestitini da supereroe che genitori poveri di fantasia comprano ai loro figli, e non parlerò neppure dei travestimenti da pagliaccio e da saltimbanco che alcuni catechisti adottano per rendere il loro insegnamento più sopportabile ai piccoli.
Voglio invece parlare proprio del Carnevale, quella tradizione che fu così fiorente nei paesi cattolici e assente altrove, e che oggi da Giovedì a Martedì Grasso ancora precede l’inizio della Quaresima, sebbene non sia che un magro avanzo dei carnevali del passato. Tra i momenti di contrasto e di incoraggiamento delle feste carnacialesche da parte del clero, quello che ha lasciato il segno più profondo è stata la pratica delle Quarantore, diffusa dal Cardinal Borromeo nell’intenzione di ravvivare la devozione popolare dei milanesi sullo scorcio del Carnevale in preparazione della Quaresima.
Si trattava di organizzare all’interno delle chiese una lunga adorazione eucaristica, che aveva il carattere di un atto penitenziale impetrante il perdono divino sugli eccessi del Carnevale, ma che aveva anche il fine di mostrare ai fedeli l’Ostia adorata prima di nasconderla alla loro vista sotto le numerose coltri violacee che ricoprivano l’altare e l’intero santuario per tutta l’imminente Quaresima. Durante le quaranta ore di questa devozione, pendant alle quaranta ore dell’adorazione del sepolcro pasquale alla fine della Quaresima, l’Ostia consacrata era esposta solennemente e le orazioni si susseguivano incessanti fino alla fine della cerimonia, prima del Mercoledì delle Ceneri.
Ma ci conosciamo abbastanza per comprendere che questo non sarebbe servito a distrarre la popolazione neanche dalla più pallida festicciola, figurarsi dalle sfrenatezze che chiudevano il Carnevale. Le Quarantore, infatti, non erano solo questo. Per attrarre una popolazione immersa in occupazioni affatto opposte a quelle suggerite dalla pietà, gli uomini di chiesa dell’epoca sapevano bene che ciò che andava loro offerto doveva appagare i sensi tanto quanto l’anima, perché anche questo si può fare in modo sano e pio, ed essere messo al servizio della religione. Le chiese allora, prima di aprire i loro portali all’ingresso dei devoti, trasformavano il loro aspetto interno quasi fossero in maschera anch’esse, e mostravano agli occhi stupiti una nuova architettura la cui rapida prospettiva di quinte teatrali che culminavano sovente in cerchi concentrici di nubi e volti di serafini incorniciava al suo sommo la bianca Ostia rilucente fra centinaia di ceri e lumi ben nascosti.
La progettazione di questi allestimenti era a volte affidata ad artisti di primo piano, e tra i più celebri si ricordano quelli di Pietro da Cortona e di Bernini che in bellezza superavano certo ogni apparato festivo presente in città, così da garantire all’evento il successo che si cercava. Simili occasioni manifestano una capacità di mutazione che i luoghi sacri avevano avuto fino all’età contemporanea, riuscendo sempre ad essere l’epicentro anche dei più importanti fatti della vita sociale convertiti in manifestazioni della vita di fede. Il luogo sacro, insomma, non è un luogo statico, ma un luogo mutevole nel corso dell’anno civile e di quello liturgico, sebbene sempre capace di tornare al suo aspetto iniziale. Esso dunque, ritratto in pietra della divinità vivente ma anche immagine dei sentimenti del suo popolo, può cambiare il proprio volto in mestizia e gioia senza tuttavia alterare i suoi connotati fondamentali, e questo aiuta a percepire il luogo sacro per quello che è, cioé un luogo vivo, e fa percepire ai distratti l’attenzione che la divinità riversa sulla vita dei suoi figli. Un luogo sacro, una chiesa, una cattedrale, dove l’inizio di una quaresima è marcato appena dal cambiamento di colore di un paramento, dove la Settimana Santa si confonde coi giorni che la precedono e dove a stento si percepisce la gioia della Pasqua, è il ritratto di un dio insensibile, lontano, o quanto meno mal celebrato.
IL TIMONE N. 120 – ANNO XV – Febbraio 2013 – pag. 47
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