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12.12.2024

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Quel romanzo che non è nato
31 Gennaio 2014

Quel romanzo che non è nato

 

 

 

Ho sempre avvertito fastidio per i chiacchieroni disinformati, per quelli che vogliono sentenziare su tutto senza conoscere nulla. Categoria in fondo innocua quando si tratta di avventori del Bar Sport che si accontentano dell’ammirazione degli altri clienti, tra una schedina e una sosta allo schermo del videopoker o della slot. Categoria non innocua, invece, quando si tratta di giornalisti o di scrittori, di gente cioè le cui chiacchiere da demi-savants possono influenzare la vita degli altri. Li chiamano “opinionisti”, “editorialisti” e sono riveriti e pagati bene, se non benissimo, spacciando i loro “secondo me” spesso brillanti e sempre privi di approfondimento, di studio, di riflessione. Per stare al campo della informazione religiosa: quante sciocchezze saccenti dette in tv o scritte sui giornali da cosiddetti opinion leader la cui competenza teologica non va al di là di ricordi di catechismi nell’infanzia e la cui conoscenza storica è costituita dalle solite “leggende nere” sulle vicende della Chiesa!
Perché, oggi, mi vien da dire queste cose? Ma perché rifletto da qualche tempo sulle ragioni di un mio scacco professionale: non essere riuscito, cioè, malgrado molti tentativi, a scrivere il romanzo che desideravo e di cui sentivo una sorta di bisogno. Forse, non ci sono riuscito proprio per l’impossibilità di sgombrare la scrivania dai libri, dai ritagli di giornale, dagli appunti che l’ingombrano. Proprio per il fastidio per chi scrive senza leggere, per l’informatore che non si informa, ho forse ecceduto nel senso opposto, con una sorta di ossessione per la documentazione.
Non metto note, nei miei libri perché vogliono essere divulgativi: ma dietro ogni affermazione c’è una fonte, una scheda, un appunto che sono sempre stato pronto ad esibire a chi mi contesta. Il contrario, cioè, di quei saccenti da mass media che molti considerano dei maestri e ai quali io, per quanto conta, ho sempre guardato come ad esempi da cui rifuggire. In questa allergia al pressappochismo, in questo desiderio di rigore ha certo parte la formazione (o la deformazione?) nelle scuole della vecchia Torino dove nessun “all’incirca” era tollerato. Nella discussione per la tesi di laurea, tanto per dire, la valutazione finale mi fu abbassata di un paio di punti perché, nell’emozione del momento, sbagliai la data (1876!) della caduta della Destra Storica, anche se subito mi corressi.
Ma questa abitudine al lavoro da artigiano di una volta non è stata soltanto faticosa bensì anche costosa, professionalmente parlando: in effetti, mi ha impedito di mettermi davanti all’Olivetti portatile prima, al PC oggi, con la libertà di chi non vuole documentare ma, semplicemente, raccontare. Lo scrupolo di non parlare a vanvera mi ha impedito lo scrivere a scrivania sgombra, lasciandomi andare al gusto di narrare. La letteratura è il regno della fantasia al potere, la saggistica è quello della bibliografia che la fa da padrona. Ed io, di questa padrona sono stato suddito, senza riuscire a divincolarmi per scrivere il “mio” romanzo.
Tutto è Provvidenza, dunque certamente è stato meglio così, anche se un po’ me ne è dispiaciuto Ma poiché non sono riuscito ad andare oltre al capitolo iniziale (quello, almeno, l’ho scritto, e più volte, anche se solo per il cassetto) oggi mi sfogherò nel raccontare l’idea, la “trama” come si dice. Lo faccio anche per certi lettori incuriositi che me ne hanno chiesto conto, visto che c’è stato un periodo in cui, imprudentemente, vendevo la pelle dell’orso prima di catturarlo. Così, dicevo che stavo lavorando al romanzo, ed era vero, ma non prevedevo che non sarebbe mai uscito, per la mia incapacità di chiudere a chiave la biblioteca e di mettermi a un tavolo finalmente vuoto.
Dunque: c’è un uomo, un professionista cui non manca il successo (lo chiameremo, qui, il Personaggio) tra i quaranta e i cinquanta, tutto sommato contento di sé, del suo lavoro, dei buoni guadagni, delle conquiste più sessuali che sentimentali, delle sue curiosità da intellettuale ironico e smaliziato. Ovviamente è divorziato, è senza figli e, altrettanto ovviamente, è un agnostico che non si pone (e non vede perché dovrebbe porsele) domande religiose. Ma ecco che, di colpo, diventa un assassino. E non per chissà quali drammatiche ragioni, bensì per un futilissimo motivo. Un sabato, infatti, se ne va verso una località sui monti sulla sua sobria e autorevole berlina tedesca. Al suo fianco, una bella donna, sposata, che ha deciso di concedersi una scappatella. Proprio perché vuol conversare tranquillo con lei e pregustare in pace il motel discreto che li attende, guida con calma e rispetta con rigore insolito i limiti di velocità. Ma, dietro, gli si accoda un tale, con il solito Suv strapotente (i “suv-normali”, li chiama con disprezzo lui, che ha gusti eleganti, con un pizzico di snobismo), un Suv che, stando a un palmo di distanza dal suo parafango, lampeggia e dà colpi di clacson perché acceleri o, meglio ancora, si metta da parte e faccia strada. Il Personaggio, naturalmente, se ne guarda bene: il codice, tra l’altro, è dalla sua parte, visto che lui rispetta i limiti imposti dai cartelli. E poi, una sorta di vanità, sollecitata dalla presenza femminile, gli impedisce di cedere all’arroganza del prepotente. Il quale, esasperato anche dalle luci lampeggianti accese per irrisione da chi lo precede, si butta in un sorpasso temerario, malgrado la strada di montagna sia stretta e piena di curve. Proprio dietro la curva il Personaggio scorge un pullman che sopraggiunge e che il furibondo, spostatosi a sinistra per il sorpasso, non può vedere. Invece di rallentare o di frenare per evitare l’impatto, ecco che il Nostro, per una sorta di vendetta e di sfida, accelera al massimo, di colpo, pur consapevole delle conseguenze inevitabili. È una questione di decimi di secondo: prima dell’urto fatale il “sorpassatore” gira, nel panico, il volto a destra, il suo sguardo si incrocia con quello del sorpassato, la cui auto gli è affiancata. Il Personaggio non dimenticherà mai più la bocca semiaperta in un grido di disperazione e gli occhi pieni di terrore, di ira, di maledizione. Un flash tragico, incancellabile che scende nel profondo e ogni giorno e ogni notte riaffiorerà. Subito dopo l’impatto inevitabile, il pullman con il muso fracassato ma senza danni alle persone, l’auto ridotta a un rottame con il conducente che, all’interno, agonizza. Il Nostro, grazie al guizzo dell’accelerata che è costata la vita a chi ha voluto sorpassarlo, ha schivato gli ostacoli e prosegue veloce, senza fermarsi. Del resto, non ha nulla da temere, rispettava la legge, che colpa ne ha se quello lo ha superato contro ogni regola, per giunta in una curva pericolosa? E il suo aumento brusco di velocità per “dargli una lezione”? Beh, quello, chi lo saprà mai? Non dall’amica che è con lui, che non confiderà di certo a nessuno che era sulla sua macchina, invece che a far visita a un’amica, come ha detto al marito.
La notte, al motel, non sarà come avevano sognato, c’è un velo di cupezza inespresso in entrambi, lui vede negli occhi di lei il disagio e il rimprovero. Il mattino dopo, al tavolo della colazione, sfogliano il quotidiano locale che dedica una pagina intera al morto nell’incidente, personaggio noto da quelle parti. Aveva una moglie e dei figli ancora piccoli, ci sono le foto della disperazione della famiglia, ci sono gli amici che parlano di un imprenditore brillante che dava lavoro a molti, ora in pericolo di perdere il posto, di una vita stroncata, dicono, da “una tragica fatalità”.
Ma il Nostro sa bene che c’è stata sì una imprudenza non sua, ma quella “tragica fatalità” non è che la sua decisione omicida di premere a tavoletta l’acceleratore. Bastava un colpetto di freno o, forse, anche solo mantenere la sua velocità e quel tale se ne sarebbe andato verso la sua vita, la sua famiglia, i suoi affari. Ma poi, non hanno la loro responsabilità anche quelle luci lampeggianti, accese in faccia a chi lo tallonava per irrisione e per sfida? Ma è come se la sua virilità fosse stata offesa dal sorpasso, avendo accanto una donna che desiderava e che (pensava) si aspettava da lui che non cedesse a un prepotente. Invece, eccola che si chiude nel silenzio, non dice nulla ma nulla, anche per lei, non sarà più come prima.
Questo non è che l’antefatto, il preludio della storia. In effetti, è da quelle foto sul giornale, con una moglie e dei bambini che piangono disperati, che tutto si mette in moto. Nel pomeriggio, ricondurrà a casa l’amica ammutolita e pensosa, sfuggente e vaga quando le propone di rivedersi. E poi, senza dirle nulla, ritornerà indietro, su quelle montagne. Alla curva della morte, la sabbia gettata sul sangue è stata dispersa dal passaggio delle auto, si scorge la grande macchia rosso cupo sull’asfalto, accanto al segno nero di una frenata disperata. Il giorno dopo, si mescolerà alla folla che partecipa ai funerali di colui che (ormai ne è sicuro) egli stesso ha ucciso solo per una stupida vanità. Parteciperà alla messa, seguirà il corteo sino al cimitero, sentirà il pianto della moglie, i singhiozzi dei bambini, vedrà la disperazione dei genitori dell’ancor giovane defunto. Si rende conto di essere un assassino ma senza la grazia che a ogni omicida è concessa: la grazia, cioè, di essere condannato e di espiare, in una lunga pena, riscattando così la colpa. Gli viene in mente di aver letto che c’erano condannati a morte che ringraziavano i giudici che davano loro la possibilità di pagare con la loro vita la vita che avevano estinto. La legge non può nulla contro di lui: anzi, lui è il buon cittadino rispettoso del codice della strada, è l’innocente che non può, che non deve rispondere della incoscienza di chi sorpassa in curva, in una stretta e trafficata via di montagna. Un delitto, dunque, senza possibile castigo, almeno umano. Ma se ci fosse un’altra giustizia, invisibile eppur reale?
Naturalmente, dopo varie vicende e tormenti, l’incontro col Vangelo non sembra una forzatura apologetica ma, direi, inevitabile. Ed inevitabile in uno come lui – gravato da un peso intollerabile – la scelta estrema: l’abbandono di tutto, la vita religiosa. Ma quale? Nessuna delle molte forme lo attira, il suo individualismo gli impedirebbe (a quell’età, poi) di assoggettarsi a una Regola. C’è, soprattutto, il suo ormai antico ma non revocabile divorzio. Ecco allora la riscoperta della forma più antica, quasi estinta da secoli e ora in pieno, silenzioso sviluppo: l’eremitismo. Sarà eremita, ma non nei deserti africani né sui monti o nelle foreste. Sarà, come oggi li chiamano, un eremita metropolitano. E vivrà la sua solitudine in un luogo adeguato, con i suoi chilometri di porticati deserti, la sua enorme estensione, la sua selva di statue dell’Ottocento, il suo isolamento tra i due fiumi che lo circondano, il Po e la Dora, sotto il verde cupo della collina fitta di boschi, sormontata essa pure da un sepolcro, seppur regale, la basilica di Superga. Ma sì, dalla città in cui abitava viene qui, attratto dal fascino del luogo. Qui, al Cimitero Generale Nord di Torino. Dimentica i titoli e le esperienze professionali, dà quanto aveva ai poveri, ma a quelli dello spirito, a quelli bisognosi non di pane ma di preghiera e di perdono.
Come lui, insomma. Dunque, i suoi beni vanno ad un’Opera che assiste i monasteri di clausura dove – lo ha visto egli stesso, andando a chiedere orazioni – la doverosa povertà cede troppo spesso a una dolorosa miseria. Si farà assumere dall’impresa che ha dal Municipio l’appalto per la sorveglianza e la custodia del Cimitero Nord. Come cella, affitta un monolocale nella tetra periferia più vicina all’immenso camposanto. Come lavoro, solo il camminare – con una divisa da guardiano e un berretto a visiera – dall’apertura alla chiusura dei cancelli tra i viali e i porticati del settore che gli viene assegnato. Il suo compito è solo di mostrarsi, di esserci, di garantire una presenza che scoraggi i ladruncoli di vasi e di fiori, i maniaci tentati da culti mortuari, i maleducati che mancano di rispetto al luogo. Nessun contatto con nessuno, nessuna visita (ai pochi parenti ed amici ha detto di avere accettato una buona offerta professionale in Australia), nessun vero collega perché ogni sorvegliante è isolato agli altri, nessuna parola con nessuno, meno che mai con i visitatori, ciascuno chiuso nel suo dolore. Al massimo, ma raramente, l’indicazione dell’uscita a qualche anziano che si è perso in quel labirinto. C’è amplissimo spazio per meditare e pregare, come in nessun altro lavoro. Dunque, davvero eremita e davvero in un deserto, popolato solo di morti.
Naturalmente, ci sarà una donna (la dottoressa di base da cui dovrà per necessità recarsi) che, incuriosita, scoprirà chi ci sia dietro quella modesta divisa grigia, quel cappello da sorvegliante, quel tono dimesso, quel rifiuto di parlare di sé, del suo presente e del suo passato. E, altrettanto naturalmente, la donna – essa pure divorziata, generosa e convinta di far bene – nel suo agnosticismo non comprende una simile scelta e non accetta che un uomo così non abbia una compagna come lei; lei, che lo tirerà fuori da quella che diagnostica come una depressione.
Lo farà curare da colleghi psichiatri, psicologi, psicoanalisti e questi gli toglieranno quell’ossessione mistica e lo faranno ritornare a una vita degna di lui. E anche di lei, che desidera stargli accanto non soltanto come medico della Asl. Il già professionista stimato, fattosi anonimo guardiano non è, o non è ancora, un santo: è un uomo del nostro tempo che tenta, in solitudine, di vivere un Vangelo radicale. Ma i maestri di spirito hanno sempre ammonito: la vita eremitica è il vertice della vita religiosa, offre grandi doni spirituali ma nasconde anche grandi pericoli. Il deserto è per i veterani nella sequela del Cristo, non è per i principianti, come lui.
Dunque, ci saranno sbandamenti, deviazioni, errori, equivoci, ritirate, ritorni, scoperte, violenza e dolcezza, ragioni del cuore e ragioni della ragione. Il tutto, certo, in una prospettiva cristiana ma non banalmente edificante; la fede vera, con le sue luci e le sue ombre, con le sue morti e resurrezioni, con le tentazioni e le ascesi, non il dolciastro di una predica melensa.
E l’ambientazione cimiteriale non significa che manchino anche il sorriso e talvolta il riso. Anche, anzi soprattutto, su quelle innumerevoli tombe aleggia la speranza di una vittoria sulla morte.
Beh, basta così. Ormai per il mancato romanziere che qui ha raccontato la sua “trama” il tempo si è fatto breve. Non ce n’è più abbastanza per riprovarci ancora una volta. Peccato? O per fortuna. Deus scit.  

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 114 – ANNO XIV – Giugno 2012 – pag. 64 – 66

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