Sono passati ormai trentacinque anni dalla fine della cosiddetta Primavera di Praga, ma l’anniversario non sembra aver suscitato particolare emozione, come si conviene – nella tradizione del “politicamente corretto” – a qualsiasi evento che possa sembrare un modo per suscitare sentimenti anticomunisti.
Ma che cos’è stata la Primavera di Praga? Soprattutto i più giovani possono, oggi, avere le idee confuse al riguardo, o addirittura ignorare l’avvenimento. Può essere utile dunque ripercorrere per sommi capi le tappe di quanto è successo.
La Cecoslovacchia – dopo il colpo di stato del 1948 che aveva portato al potere i comunisti – era rimasta fino agli anni ’60 un tranquillo membro del Patto di Varsavia, cioè una di quelle” democrazie popolari” che nulla avevano né di democratico né di popolare e ove vigeva un regime ferreo e ottuso di stretta osservanza sovietica. Ma all’inizio degli anni ’60 entrarono nel partito comunista cecoslovacco alcuni personaggi portatori di un’ideologia riformista, che mirava a uscire dalla crisi sociale e dalla stagnazione economica restando sì nel sistema politico socialista, ma emancipando lo dalla dipendenza sovietica e dalla burocrazia centralista. Sostenuti dalla élite intellettuale, costoro iniziarono una battaglia cui, nell’ottobre 1967, aderirono con entusiasmo gli studenti: senza luce e al freddo non si poteva studiare.
La svolta avvenne nel gennaio del ’68 quando, durante i lavori del Comitato centrale, il primo segretario del partito comunista cecoslovacco (che come in tutti i regimi sovietici era l’uomo più potente del paese, e che allora era Novotny, un cupo conservatore) fu costretto a dimettersi e a lasciare la carica a Alexander Dubcek, allora oscuro segretario del partito comunista slovacco.
Cominciavano così i mesi della grande utopia, come è stata chiamata, o della grande illusione: i mesi cioè in cui si sperò – contro ogni speranza – che fosse possibile dar vita a un “socialismo dal volto umano”. Cambiano tutti gli uomini al potere (intorno a Dubcek, Cernik diventa primo ministro, Svoboda presidente della Repubblica, Smrkowsky presidente dell’Assemblea nazionale), vengono introdotti elementi di pluralismo economico e politico, la censura è soppressa, si cerca di riformare l’economia, abbandonando il centralismo e l’industrializzazione forzata (il solito mito marxista-leninista che tanti danni e lacrime ha portato ovunque). Anche la Chiesa si fa sentire e l’arcivescovo di Praga, l’eroico e indomito card. Tomasek (iurium humanorum strenuus defensor sta scritto sulla sua tomba a Praga: strenuo difensore dei diritti umani), chiede lo scioglimento del Movimento dei preti per la pace (il solito organismo creato per motivi propagandistici dai comunisti quando vanno al potere) e lancia l’Opera di rinnovamento conciliare: così rinasce la stampa cattolica e lo Stato cessa ogni ingerenza nelle questioni ecclesiastiche.
Ma non poteva durare. Il processo di liberalizzazione allarmò pesantemente i dirigenti sovietici, che videro nella Primavera di Praga – giustamente, dal loro punto di vista – una malattia contagiosa, e dunque una minaccia per gli altri regimi comunisti.
Dubcek cercò in tutti i modi di rassicurare i sovietici, ma si illudeva. Dai verbali segreti delle riunioni del Patto di Varsavia (pubblicati sul n. 4/98 de La nuova Europa) emerge chiaramente la preoccupazione di tutti i membri del Patto.
“Dobbiamo difendere la Cecoslovacchia – si legge – e con essa difenderemo anche tutto il blocco socialista”. E così, nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968 (quando, come scrive Dubcek nelle sue Memorie, “era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito”), le truppe del Patto – 750.000 uomini e 6000 carri armati – invadono la Cecoslovacchia e mettono la parola fine alla Primavera di Praga. Dubcek, con altri esponenti politici, viene sequestrato e portato al Cremlino dove, nel tentativo di ammansire i sovietici, finisce per sottoscrivere, il 26 agosto, un accordo (il cosiddetto diktat di Mosca) in cui la priorità è data alla “lotta contro le forze antisocialiste”. Comincia così il ritorno all’ordine: vengono evitate le sollevazioni popolari, anche se non mancano fatti tragici, come il rogo di Jan Palach, uno studente ventunenne che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco nella piazza Venceslao di Praga per protesta contro l’occupazione sovietica. Ma la “normalizzazione” è in marcia, grazie anche all’abile manovra chiamata la “tattica del salame”, con cui viene disgregato il gruppo che faceva capo a Dubcek, prima allontanando Smrkovsky, poi dividendo Cernik da Dubcek e Dubcek da Svoboda.
Dopo di che la strada è in discesa.
Dubcek viene sostituito da Husak come primo segretario del pcc nell’aprile del 1969, poi espulso dal Presidium (in settembre, dopo le manifestazioni antisovietiche suscitate dalla vittoria della squadra di hockey ceca contro quella sovietica), quindi obbligato a dimettersi dal Comitato centrale nel gennaio 1970 e infine, dopo pochi mesi come ambasciatore ad Ankara, espulso dal pcc il 26 giugno 1970 (tornerà visibile, come presidente del parlamento, dopo l’89, per morire nel ’92 in un incidente automobilistico). Gli intellettuali e gli studenti sono ridotti al silenzio, la polizia riprende il suo occhiuto potere, la censura torna a dominare, viene largamente praticata la denigrazione e la calunnia verso i personaggi più noti (che cosa non si è scritto, in quegli anni, contro Prochaska, contro Havel – che dopo 1’89 diventerà presidente della Repubblica contro Pelikan e tanti, tanti altri?). Insomma, la Cecoslovacchia torna all’ovile, e dovrà aspettare vent’anni per riassaporare – con la “rivoluzione di velluto” del novembre 1989 – la libertà.
Ma questa è un’altra storia.
In conclusione si può dire, come ha scritto Renzo Foa, che “il tempo, di solito prodigo di risarcimenti morali, non è stato generoso con Dubcek e con i ‘comunisti riformatori’, che hanno finito per essere due volte sconfitti: in quanto riformatori (da altri comunisti) e in quanto comunisti (dalla storia)” . Ma il comunismo è quello che è: esso non è in alcun modo riformabile, e la vicenda della Primavera di Praga ne è un’ennesima, drammatica conferma.
Resta però il fatto che “la realtà del comunismo è profondamente radicata nei cuori”, e che “il cambiamento delle strutture, del regime, non è ancora il cambiamento del cuore e della mentalità: molti, ancora adesso, agiscono sotto l’influsso di questa mentalità, anche senza rendersene conto”: così, con amarezza, ha constatato il Card. Vlk, arcivescovo di Praga in un’intervista a Avvenire del 20 agosto 1998.
BIBLIOGRAFIA
Il resoconto più accurato degli avvenimenti è ancora quello di F. Feito, Storia delle democrazie popolari, Bompiani, Milano 1977, vol. II, pp. 190 ss.
Molto interessanti anche le considerazioni sulla Primavera di Praga di V. Havel, in Interrogatorio a distanza, Garzanti, Milano 1990, pp. 89-125.