Riflessioni in margine al caso Sofri: la pena deve ristabilire ’uguaglianza tra gli uomini infranta dal reo, perciò non basta il pentimento per reclamarne la conclusione. Essa restituisce dignità al reo, ma molti cattolici lo hanno dimenticato.
Mentre scrivo questo articolo non so come andrà avanti la proposta di legge per ottenere la grazia per Adriano Sofri, che svariati processi hanno dichiarato essere il mandante dell’assassinio di Luigi Calabresi. Non so se la potentissima lobby dei suoi amici riuscirà nel suo intento, ma questa ennesima puntata del caso Sofri offre lo spunto per fare alcune considerazioni sulla funzione della pena. Infatti, molti ripetono continuamente che Sofri è cambiato ed è pentito, perciò non ha più senso la continuazione della pena.
Ora, anche se ammettessimo che sia vero il pentimento di Sofri, quest’argomentazione denuncia un gravissimo errore circa la funzione della pena, ed esprime una teoria della pena sbagliata, che è ormai purtroppo dilagata paurosamente anche nel mondo cattolico, tra teologi, sacerdoti, credenti, ecc., secondo cui la pena ha due funzioni: 1) rieducativa, cioè ha lo scopo di produrre il pentimento, il ravvedimento del reo; 2) preventiva-difensiva, cioè ha lo scopo di evitare nuove minacce all’incolumità della società, esercitando un’azione intimidatrice nei confronti del reo e di coloro che potrebbero emularlo.
Queste due funzioni della pena sono giuste, ma non sono sufficienti e debbono essere integrate da una terza fondamentale funzione, quella retributiva. Essa consiste in un atto di contraccambio al reato compiuto, è il corrispettivo, proporzionato, del male commesso dal reo, che ristabilisce la giustizia. Infatti, ciascun uomo vive con gli altri uomini in un rapporto di uguaglianza, di reciprocità, di simmetria.
Ora, che cosa fa il reo? Egli cancella questa uguaglianza, infrange questa reciprocità, ottiene un vantaggio indebito a spese degli altri.
Perciò, come chi ha guadagnato un vantaggio ingiusto deve risarcirlo, come chi si è arricchito illecitamente deve restituire il maltolto e come una squadra sportiva che ha barato deve essere penalizzata, così il reo che ha commesso un reato che ha rilevanza penale deve subire una pena afflittiva, per scontare il male che ha compiuto.
Perché afflittiva? Perché il reo ha prevaricato con la sua volontà e la sua libertà sulla volontà e la libertà dei suoi simili, perciò la pena deve affliggere la sua volontà e la sua libertà per riequilibrare il male che egli ha compiuto. Non solo, ma il reo, prevaricando sui suoi simili, ha abdicato alla propria dignità, perciò la pena, facendogli espiare il male compiuto, gli restituisce quella dignità che egli ha perso; in tal modo, come dice Platone, la cosa peggiore che può capitare ad un uomo non è commettere ingiustizia, ma commettere ingiustizia e non venire punito, perché chi non viene punito non recupera la propria dignità che ha leso. Ciò significa che esiste un diritto-dovere dello Stato di punire, ma anche un diritto del reo di essere punito dallo Stato (anche se il reo non è quasi mai consapevole): il reo ha il diritto di essere punito per poter recuperare la propria dignità.
Qual è la differenza con la vendetta? La vendetta vuole danneggiare il reo, invece la pena come retribuzione ha un’intenzione diversa: ristabilire l’uguaglianza infranta dal reo e ridargli la dignità che egli ha perso, quindi non vuole il male del reo, ma il suo bene. Fare del male a qualcuno non vuol dire sempre fare il male morale: il padre che punisce il figlio che ha sbagliato gli fa male, ma non fa del male morale, anzi fa del bene morale, e fa il bene del figlio.
Qual è la differenza con la legge del taglione? È vero che la pena dev’essere proporzionata, ma non guarda solo ai fatti (occhio per occhio), ma anche alle intenzioni, alla consapevolezza e alla premeditazione del reo; inoltre la logica del taglione colpisce anche chi non c’entra (se tizio uccide i figli di caio, caio per ritorsione uccide i figli di tizio), mentre la pena retributiva affligge solo il responsabile di un male.
Un’ultima obiezione dice che il male compiuto non si può cancellare, e la pena aggiunge un nuovo male a quello già compiuto. In realtà, come ho già accennato, nessuno pretende che il male sia cancellato, il male resta; con la pena si vuole ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini, quindi la pena non aggiunge un nuovo male a quello già esistente, bensì fa del bene. Il discorso che ho fin qui sviluppato è stato teorizzato in modo simile da grandi filosofi come Platone, Kant ed Hegel. Ma non è contrario al cristianesimo? Mi basta citare il più grande filosofo e teologo cristiano di tutti i tempi, S. Tommaso, che spiega come la pena «tende principalmente a un bene al quale si giunge mediante la punizione dei colpevoli, per esempio al loro emendamento [funzione rieducativa], o almeno alla repressione del male per la pubblica quiete [funzione preventiva-difensiva], oppure alla tutela della giustizia e all’onore di Dio [funzione retributiva]» (Somma teologica, II-II, q. 108).
Ma il cristianesimo non dice di perdonare? Certo, ma il perdono concerne il colpevole e non toglie la colpa: se la pena fosse solo rieducativa, nel sacramento della confessione non avrebbe senso comminare la penitenza al peccatore, che è già pentito. Invece, pur essendo già pentito e pur essendo già stato perdonato, il peccatore riceve una penitenza, che è una retribuzione afflittiva del male che ha compiuto, e ciò dimostra che il perdono e la punizione non sono alternativi, bensì complementari. Del resto la funzione retributiva della pena è chiaramente indicata dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa» (2266). Un altro esempio clamoroso di retribuzione è l’inferno, come si comprende chiaramente dal fatto che esso perdurerà anche dopo la fine del mondo. Infatti, è chiaro che dopo la fine del mondo la pena dell’inferno non può avere una funzione rieducativa, in quanto i dannati non possono essere rieducati, né una funzione preventiva ed intimidatrice, perché non esiste più nessuno sulla terra che possa ricavare un monito da essa: dunque dopo la fine del mondo l’inferno conserva solo una funzione retributiva.
Il vangelo non è almeno incompatibile con la funzione difensiva della pena? Non chiede di porgere l’altra guancia? Si, ma porgere l’altra guancia non esclude la liceità della legittima difesa che, dice il Catechismo, «oltre che un diritto, può anche essere un grave dovere, per chi è responsabile della vita degli altri» (n. 2265), perché io posso scegliere di porgere l’altra guancia se qualcuno aggredisce me, ma ho il dovere di reagire se qualcuno aggredisce chi è sotto la mia responsabilità (per es., se io sono un padre e qualcuno aggredisce mio figlio, oppure se sono un governante e qualcuno mette in pericolo i cittadini che io devo tutelare).
Per mancanza di spazio devo fermarmi qui, sperando che dal poco che ho potuto dire sia chiaro che non basta il pentimento di un reo per chiedere la conclusione della pena. E se proprio si ritiene di concedergli la grazia è imprescindibile che egli la chieda.
RICORDA
«L’arte di procurar ricchezze […] libera dalla povertà, la medicina dalla malattia, e la giustizia libera dalla dissolutezza e dall’ingiustizia. […] Dunque […] il fare ingiustizia e non scontare la pena è veramente il più grande e il primo di tutti i mali».
(Platone, Gorgia, 478 A – 479 E).
BIBLIOGRAFIA
Vittorio Mathieu, Perché punire? Il collasso della giustizia penale, Rusconi 1978, specialmente pp. 73-298.
Catechismo della Chiesa Cattolica, punti 2261-2266.
Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-II, q. 108.
Platone, Gorgia, 477 E – 479 E.
IL TIMONE – N. 31 – ANNO VI – Marzo 2004 – pag. 32 – 33