Le feste non passano mai prive di dispiaceri per i cultori della buona liturgia. Se già costoro sono condannati a soffrire ogni domenica, le loro sofferenze devono moltiplicarsi nei giorni di Natale, di Pasqua e in tutte le principali feste comandate. Tralasciando i dolori propri di un’esecuzione dei sacri riti scorretta e fantasiosa quanto banale, è il luogo stesso delle sacre celebrazioni a farsi più brutto, è proprio il tempio di Dio a essere riempito di ninnoli e futilità, ivi trasportati direttamente dai miserevoli salotti di un mondo senza gusto.
E così i due moccoli di candela, uno più alto, l’altro più basso, affiancati come nella vetrina di un negozio di articoli da regalo, che già abitualmente intristiscono la tavola usata per altare, si gonfiano di fiocchi e diventano rossi per farsi meglio guardare. Grosse stelle di cartone si appendono qui e là, un po’ come all’asilo, e catene di angioletti di carta con facce da fumetto potrebbero dissuadere anche le anime più devote dal soffermarsi in orazione.
Almeno a Natale resta però ancora qualcosa cui si possa rivolgere lo sguardo con edificazione. A differenza che nelle scuole, dove diventa a mano a mano più raro, nelle nostre chiese almeno viene ancora allestito un presepio, spesso incompleto, a volte brutto, ma che solitamente detiene quelle caratteristiche storiche utili a trasmettere lo stesso significato attraverso le generazioni. E così, anche nelle chiese di periferia, anche negli hangar e nei capannoni che chiamiamo chiese solo perché non sapremmo quale altro nome dargli, si ammira annualmente la ricostruzione di quello che fu forse il primo spazio sacro del Cristianesimo. Uno spazio sacro in miniatura, dove non si può entrare, e che si può solo osservare, contemplare come un dipinto, ma che più di un dipinto restituisce quella fisicità necessaria a creare uno spazio, quasi a sottolineare che l’Incarnazione avvenne veramente in un luogo, in un ambiente fisico, e non nel sogno di un dipinto.
L’esclusività dello spazio che il presepio rappresenta e riproduce si intende fin dall’etimologia latina del termine composto di prae “davanti” e saepire “recintare”, qualcosa dunque che dev’essere racchiuso, protetto dall’ingresso di ciò che gli è estraneo. Ritorna nel presepio quella necessità di chiusura che tutti gli spazi sacri avvertono e che avevamo già tratteggiato molti numeri fa a proposito delle balaustre all’interno delle chiese. Così come la balaustra permette la creazione di un al di qua e di un al di là che diventa oggetto di contemplazione, allo stesso modo il presepio, chiuso nella sua dimensione inaccessibile, è oggetto da contemplare in pace e adorazione al fine di poter gustare, anche se non comprendere, il mistero ineffabile di un Dio fatto bambino.
Obbedendo a dei moduli antichi, sperimentati dalla Tradizione, il presepio è cosparso di segni che aiutano questa contemplazione. Gli angeli gioiscono dell’avvenimento dell’incarnazione e con loro gli uomini, dai re ai pastori, e infine gli animali; le stelle vi partecipano tanto quanto la terra che si apre con una grotta per dargli ospitalità, dimostrando così in una sola scena come l’evento per eccellenza coinvolga tutta la creazione, dalla sfera celeste alla terrestre, dalle schiere angeliche alle greggi. La grotta della Natività, preservata nel suo originale a Betlemme, anticipa e prepara quella del Calvario, quando il Salvatore entrerà nuovamente in una caverna scavata nella roccia concludendo la sua parabola di vita mortale così come l’aveva iniziata, in un antro tra le viscere della terra, per poi risalire ai cieli, tra quelle stelle che già ne avevano annunciato la discesa. Contemplare il presepio aiuta a entrare in esso, non col corpo, perché non è possibile, ma con l’anima e l’intelletto, e a trovare posto così nella mistica grotta che accoglierà i nostri sguardi in fuga dalle miserie di una chiesa distratta e li riporterà alla verità e alla realtà, perché la realtà è dentro il presepio, non fuori.
IL TIMONE N. 127 – ANNO XV – Novembre 2013 – pag. 47
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