Un’enciclica di molti anni fa sulla dottrina della riparazione. Un’occasione di preghiera e di espiazione che possono fare tutti di fronte agli eventi che offendono Dio
Due episodi sacrileghi hanno “bucato” le cronache negli ultimi tempi. All’inizio dello scorso anno, ha fatto scalpore lo spettacolo teatrale blasfemo e osceno su Cristo del regista Romeo Castellucci Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, rappresentato in diverse città d’Italia; pochi giorni fa, milioni di italiani hanno assistito alla rivoltante parodia blasfema dell’ostensione del Santissimo – sostituito con una confezione di profilattici –, con tanto di salmodia, durante il Concerto del Primo Maggio a Roma, svoltosi in piazza San Giovanni, giusto di fronte alla cattedrale di Roma, la sede episcopale di papa Francesco.
Se per il mondo profano si tratta al massimo di manifestazioni di cattivo gusto, per il credente questi sono gesti che offendono direttamente la persona di Gesù di Nazareth e in Lui offendono il nome di Dio. E, come tali, gesti che feriscono la coscienza dei fedeli, deprimono il tono morale pubblico ed erodono la solidarietà che tiene unito il popolo.
Che cosa si può fare in circostanze del genere? È giusto invocare l’intervento del censore o dei carabinieri? Certo, in un mondo, che oggi non esiste più, dove l’autorità civile s’intrecciava con quella religiosa e lo Stato si faceva obbligo di tutelare l’ordine morale della società, sarebbe stato anche giusto. Ma oggi, quando l’autorità pubblica si è ritirata non solo dal terreno religioso, ma anche da quello morale – vogliamo parlare di aborto di Stato? o di slot machine e di ludopatie? o del dilagare sempre più sfrontato della prostituzione “a cielo aperto”? o della diffusione pandemica della pornografia? –, appellarsi ai tutori dell’ordine, allo Stato, invocare il “comune senso del pudore”, quasi sicuramente non porterà alcun frutto. E poi si è visto com’è andata con il primo dei due episodi che ho citato: non è successo nulla; gli spettacoli si sono svolti regolarmente nonostante contestazioni, anche plateali, da parte dei cattolici.
Certo, se si tratta di gesti che configurano ancora dei reati, ancorché de facto depenalizzati, è legittimo difendersi con le armi della legalità: così hanno fatto i giuristi cattolici nel caso del Primo Maggio. Tuttavia, le speranze che il colpevole venga punito sono davvero assai esigue, vista l’ambiguità della legislazione in materia e gli orientamenti dell’attuale corpo giudicante. Anzi, sarà già un successo se il colpevole – per inciso tale Luca Romagnoli, “cantante” – non diventerà un martire dell’“oscurantismo” cattolico!
E, comunque, il senso comune ci dice che la punizione non basta: un equilibrio è stato rotto e qualcuno lo deve ripristinare, qualcosa è stato sporcato e va ripulito.
Si può riparare?
Che cosa si può fare, allora? Tacere e far finta di niente? Dimenticare? Minimizzare? No: si può e si deve reagire sul piano spirituale. Davanti a un sacrilegio quello che possiamo fare sempre e subito è pregare, pregare Dio per “compensarlo” con il nostro amore dell’offesa subita e anche per chiedergli – Lui misericordia infinita incarnata, come insegnerà santa Faustina Kowalska – di non “vendicarsi” dell’insulto patito e, anzi, di perdonare l’autore del gesto sacrilego e tutti coloro che vi hanno concorso moralmente, “internamente” o “esternamente”.
L’altra cosa – che non esclude, ma anzi integra, la prima – è riparare, cioè cercare di ristabilire quell’equilibrio, quell’ordine, che il gesto oltraggioso ha infranto.
Ma come riparare? È possibile, quando si tratta di una offesa diretta a Dio, quindi a un Essere infinito, e quindi quando è stata commessa una colpa in un certo senso infinita, riparare? Chi poi è tenuto a riparare? Certo chi ha peccato: ma anche altri?
L’enciclica di Pio XI sulla riparazione
Non sono un teologo morale, ma soltanto un ascoltatore del Magistero e ricordo che la dottrina della riparazione è esposta in una enciclica, ormai datata e dimenticata, di papa Pio XI (1922-1939), un papa dal grande e illuminante magistero. La lettera è la Miserentissimus Redemptor (Il Redentore misericordiosissimo), pubblicata l’8 maggio 1928, con allegato il testo dell’Atto di riparazione al Sacratissimo Cuore di Gesù.
In quegli anni, la situazione della Chiesa nel mondo era particolarmente difficile. Nel Messico infieriva da tempo una dura persecuzione contro i cristiani che due anni prima aveva provocato l’esplosione di una grande rivolta del popolo cristiano – quelli che gli avversari anticlericali chiamavano con disprezzo “cristeros” –, in cui morivano tutti i giorni, in combattimento o nella repressione, centinaia di religiosi e di laici: quei “martiri messicani” che con il beato Giovanni Paolo II la Chiesa ha incominciato a beatificare a schiere. E il cristianesimo era perseguitato in maniera cruenta anche in Russia e nei Paesi dell’ex impero zarista caduti sotto il comunismo. Mentre, in generale, nei Paesi liberi, nel popolo e specialmente nei governi, la fede pareva essersi raffreddata, se non, in alcuni casi, del tutto estinta.
Il Pontefice viveva questa situazione con dolore e con preoccupazione. Di fronte alla crescente scristianizzazione, tre anni prima aveva promulgato l’enciclica Quas primas con la quale formulava la dottrina della regalità anche sociale di Gesù e istituiva la festa liturgica di Cristo Re. Ma di fronte ai mille oltraggi che, ciononostante, il Signore pativa in tanti luoghi della terra si poneva anch’egli il problema di che cosa poteva fare, in concreto, la Chiesa. La Miserentissimus Redemptor nasce dalla sua meditazione su questo punto.
Pio XI individua nel documento due atti di amore che è possibile e opportuno opporre a uno o più atti di odio: la consacrazione al Sacro Cuore – il luogo e l’emblema dell’amore infinito di Dio in Gesù Cristo – e la riparazione.
Il primo atto riconosce esplicitamente la signoria di Cristo sul creato, sulle persone, sui popoli, e la si riattribuisce, la si rende a Lui volontariamente attraverso il gesto della consacrazione, rimettendo, cioè, e riservando a Lui – o alla Vergine – una realtà umana da Lui ricevuta in dono. Così accade per una persona – per esempio i religiosi o per un figlio –, per un oggetto, per un luogo, per una città o un popolo.
L’altro atto intende espiare le offese, proprie e altrui, rivolte a Dio con ogni forma di mancato riconoscimento o rifiuto della signoria di Dio sulla vita degli uomini e delle nazioni.
Letteralmente “riparare” significa rimettere al suo posto qualcosa che è venuto a mancare, aggiustare qualcosa che si è rotto. In senso cristiano, “riparare” significa, in analogia, restituire a Dio il suo onore, “consolarlo” per un dolore inflittogli, colmare un vuoto che si è aperto. E se Gesù è il mediatore fra l’uomo e Dio, il modo migliore per riparare è associarsi con i propri patimenti – volontari o solo accettati per amore – ai dolori sopportati da Gesù nella sua Passione per rimettere i peccati dell’umanità di ieri e di oggi.
Come si può però presumere di “consolare” Dio, che è l’Onnipotente, con un semplice atto umano? Si può perché così Egli ha voluto e ha stabilito. Attraverso san Paolo sappiamo che il Corpo Mistico, la Chiesa, deve compiere, portare a termine, la Redenzione unendo i suoi patimenti ai patimenti del suo Capo, Gesù. Se ogni peccato attuale rinnova, in certa misura e in un certo senso, i dolori della Passione, ogni atto di sacrificio compiuto da un uomo o da una donna per amore di Cristo, in certa misura e in un certo senso, li allevia. E tante rivelazioni private confermano questo desiderio del Salvatore di associare anime alla sua sofferenza.
Il Pontefice – dopo aver disegnato nei dettagli un quadro del mondo e della Chiesa dell’epoca letteralmente disastroso, che lo induce a esclamare: è un «[…] mondo “tutto sottoposto al maligno” [1 Gv 5,19]» chiede alla Chiesa del tempo di fare della riparazione una pratica ordinaria e abituale, almeno in coincidenza con la festa annuale del Sacro Cuore. Pio XI sembra presentire in che misura, di lì a poco, si sarebbero scatenate le potenze del male – poco più di dieci anni più tardi scoppia il tremendo secondo conflitto mondiale e, grazie al comunismo e al nazionalsocialismo, il Novecento diventa il secolo di genocidi e dei martiri per antonomasia – e voleva preparare la Chiesa ad affrontarle.
Oggi, a ottantacinque anni da quella lettera, all’inizio del Terzo Millennio cristiano, la situazione dei cristiani nel mondo non è molto migliorata: l’odio contro il Vangelo si è moltiplicato e in tutto il mondo, anche nel continente che fu la culla della cristianità, sono emersi soggetti religiosi e politici che hanno ricominciato a costellare di episodi di martirio gli annali della Chiesa.
A maggior ragione pare oggi opportuno fare tesoro di quanto allora il pontefice lombardo proponeva ai cristiani e riprendere a consacrare e a riparare. Se la consuetudine si è persa, oggi ha ancora più senso ripristinarla e, davanti all’avanzata sempre più massiccia e sfrontata dell’apostasia, della dissacrazione e della profanazione, non lasciarne la pratica solo a qualche ordine religioso, ma riportarla al centro della vita ordinaria delle comunità cristiane.
IL TIMONE N. 125 – ANNO XV – Luglio/Agosto 2013 – pag. 54 – 55
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