Banner_Il Sabato del Timone_14 dic 24_1920x280

14.12.2024

/
Rousseau: una via al totalitarismo
31 Gennaio 2014

Rousseau: una via al totalitarismo

 

  

È all’origine della critica radicale dell’autorità e della deresponsabilizzazione dei singoli. Perché addossa tutte le colpe alla società. Per lui la legge dello Stato è sacra. E questo porta al totalitarismo
 

 

Il pensiero di Jean Jacques Rousseau (1712-1778), improntato all’idea di un ipotetico stato di natura in cui gli uomini, innocenti e felici, (il cosiddetto mito del «buon selvaggio»), vivrebbero in una condizione di uguaglianza assoluta, è all’origine di una critica radicale dell’autorità, che eserciterà la sua influenza dai giacobini del 1793, a Marx e Lenin, sino ai marxisti (nel dopoguerra), da cui verrà recepito come portatore di istanze democratiche ed egualitarie.
Il momento decisivo del percorso intellettuale di Rousseau è la partecipazione ad un concorso della prestigiosa Accademia di Digione in cui si doveva trattare il quesito: «Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi». Rousseau vince con il Discorso sulla scienza e sulle arti (1750), in cui sostiene che scienze ed arti hanno steso «ghirlande di fiori» sulle «catene» che imprigionano gli uomini, sostituendo dei comportamenti artificiali ai comportamenti naturali; esse sarebbero nate dai vizi (l’astronomia dalla superstizione, la geometria dall’avarizia, l’eloquenza dall’ambizione…) e avrebbero favorito la diseguaglianza sociale. Le tesi del Discorso suscitano una ridda di obiezioni che costringono Rousseu a rimeditare le ragioni della decadenza, conducendolo a rivedere l’ordine delle cause che l’hanno prodotta e a identificare la fonte prima del male non nelle scienze, ma nella diseguaglianza. Sarebbe la diseguaglianza a generare la ricchezza da cui provengono sia il lusso, che sta all’origine delle arti, sia l’ozio, da cui, solo successivamente, nascono le scienze.
Questo mutamento di prospettiva mette al centro la questione della diseguaglianza, che viene affrontata da Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (pubblicato nel 1755). Per conoscere l’origine della diseguaglianza bisogna conoscere l’uomo.
Ma come è possibile discernere nell’uomo ciò che è naturale da ciò che dipende dalla cultura ed è quindi acquisito? Secondo Rousseau questa indagine non deve avere lo scopo d’identificare la verità sullo «stato di natura», ma deve, conformemente al modello delle scienze, elaborare un’ipotesi teorica che si ponga come punto di riferimento per una critica della condizione reale dell’uomo. In questo ipotetico «stato di natura» l’uomo vivrebbe in una condizione d’innocenza prerazionale e presociale, caratterizzata dall’equilibrio tra i bisogni minimi avvertiti (il cibo, il sonno, l’istinto sessuale) e le risorse disponibili. L’asocialità naturale avrebbe posto l’uomo in uno stato d’indipendenza, cioè di libertà ed autarchia (autosufficienza); la prerazionalità, inoltre, avrebbe implicato l’assenza del linguaggio, delle scienze e dell’educazione. Lo stato civile – sempre secondo Rousseau – è determinato da una serie di cause esterne e fortuite di natura fisica: la difficoltà a procurarsi il cibo, il clima avverso, la necessità di difendersi dalla ferocia degli animali avrebbero provocato le prime libere associazioni dando origine alla «prima rivoluzione» costituita dalla nascita della famiglia. L’equilibrio tra natura e civiltà propria della «società nascente» sarebbe però degenerato in modo definitivo solo con la scomparsa dell’uguaglianza, conseguente alla divisione sociale del lavoro e all’avvento della proprietà privata. Quest’ultimo evento costituirebbe la «grande rivoluzione» che segna la nascita della società civile. Le ingiustizie, le usurpazioni, la sfrenatezza, che sarebbero seguite al venir meno dell’uguaglianza, avrebbero condotto alla guerra di tutti contro tutti. In una situazione in cui a perdere maggiormente erano i ricchi, secondo Rousseau è stato formulato l’accordo dalla cui sanzione giuridico-politica è nato lo Stato: gli animi grossolani degli uomini sarebbero stati ingannati dalla promessa di stabilire un ordine di giustizia e di concordia e avrebbero perciò consentito a riconoscere un potere supremo capace di difendere tutti i membri dell’associazione: così «tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà».
In questo discorso di Rousseau sulla cultura (e con il termine «cultura» Rousseau non intende solo lo studio e la conoscenza, ma anche la vita in società) c’è una delle principali fonti culturali di quel sociologismo riduzionista che deresponsabilizza il singolo per addossare la responsabilità alla società: l’uomo è considerato buono, perciò è la società ad influenzarlo, a condizionarlo e a corromperlo.
L’uomo è determinato totalmente dalla cultura circostante ed il suo comportamento è prodotto dall’interazione sociale.
A partire da questa concezione dell’uomo e della civiltà, Rousseau elabora un progetto di riforma sociale, politica e pedagogica, i cui nuclei fondamentali sono contenuti nelle opere Nuova Eloisa (1760), Il Contratto sociale (1762) ed Emilio (1762), in cui descrive le condizioni che consentirebbero alla famiglia, alla società e all’individuo di riscattarsi dalla degenerazione introdotta dalla civiltà.
La famiglia recupererebbe una condizione naturale fondando il vincolo coniugale sulla libera scelta guidata dall’istinto; la natura individuale potrebbe conservarsi grazie a un’educazione fondata su spontaneità e utilità, in cui il ruolo dell’educatore fosse ridotto a «facilitatore» dell’apprendimento (per inciso: Rousseau iniziò una relazione con Thérèse Levasseur, che sposerà in seguito e da cui avrà cinque figli, che però non educò mai, anzi li abbandonò tutti al brefotrofio); il riscatto etico-politico per Rousseau avviene con la trasformazione dell’uomo in cittadino attraverso il «contratto sociale»: con quest’ultimo ogni uomo aliena tutti i suoi diritti a tutta la comunità, ed in cambio diventa un membro del corpo morale collettivo che ha un io e una volontà comuni. La persona pubblica formata attraverso il contratto è il corpo politico ed i suoi associati si chiamano cittadini perché partecipano dell’autorità sovrana dello Stato.
La volontà del corpo politico è chiamata da Rousseau volontà generale. Essa non coincide con la somma delle volontà dei singoli, volte all’utile particolare e quindi talvolta fallibili ed egoiste, ma sarebbe, per definizione, sempre buona, cioè tendente al bene comune, giusta, in quanto tenderebbe sempre all’uguaglianza, infallibile, perché – secondo Rousseau – non sbaglia mai, ed inalienabile perché rinunciare ad essa significherebbe rinunciare alla libertà. Infatti, la libertà civile per Rousseau non coincide con la libertà naturale, ma con la libertà riconquistata attraverso la sottomissione alla legge promulgata dal corpo politico. In altri termini, la libertà civile finisce per consistere nell’ubbidienza alla volontà dello Stato. Non si tratta qui della libertà degli individui dallo Stato, ma della libertà degli individui nello Stato. Questa visione della libertà, insieme all’idea della bontà, infallibilità e inalienabilità della volontà generale, rende Rousseau un precursore del totalitarismo e del collettivismo.
Infatti, secondo Rousseau, la legge è sacra, in quanto è frutto ed espressione della volontà generale, che è la regola del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male.
Non c’è dunque una legge morale naturale distinta dalla legge positiva promulgata in un codice di leggi umane; e non trova posto in alcun modo la possibilità di un diritto di resistenza allo Stato. La legge dello Stato è immediatamente il criterio assoluto ed inderogabile del bene/male. Ora, poichè può esistere una maggioranza dispotica nei riguardi del singolo o di una minoranza, è chiaro che la proposta di Rousseau porta facilmente allo Stato etico (che ingloba tutti i valori e che decide del bene e del male) ed allo Stato totalitario.

 

 

RICORDA 

 

«Trent’anni dopo l’apparire del Contratto sociale (Amsterdam, 1762), la rivoluzione francese farà di quell’ipotesi astratta una realtà; che manifesterà, tuttavia, l’astrattezza e l’impossibilità del proprio principio annientando e divorando se medesima. Chi rappresenta la volontà generale […]? […] Chiunque la impersoni non tollererà nemmeno il sospetto che un individuo qualsiasi (compreso lui stesso) possa far valere, di fronte ad essa, la propria singola volontà privata; e istaurerà il Terrore. D’altro canto, chiunque a volta a volta impersoni la volontà generale, non avrà alcun fondamento per impersonarla lui piuttosto che un altro; e perciò sarà ogni volta decapitato, perdendo, con la testa, il principio di quella “volontà individuale” che non ha il diritto di ergersi di fronte alla volontà collettiva».
(Vittorio Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico, La Scuola, 1969, vol. II, p. 260).

 

BIBLIOGRAFIA 

 

Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, 1952, specialmente pp. 57-72.
Vittorio Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico, La Scuola, 1969, vol. II, pp. 255-262.

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 32 – 33

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Per leggere l’articolo integrale, acquista il Timone

Acquista una copia de il Timone in formato cartaceo.
Acquista una copia de il Timone in formato digitale.

Acquista il Timone

Acquista la versione cartacea

Riceverai direttamente a casa tua il Timone

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Acquista la versione digitale

Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone

Resta sempre aggiornato, scarica la nostra App:

Abbonati alla rivista