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14.12.2024

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Ruanda, il genocidio vent’anni dopo
28 Febbraio 2014

Ruanda, il genocidio vent’anni dopo

Dall’aprile al luglio 1994 si compiva il peggior massacro del XX secolo: un milione di morti in cento giorni, a colpi di machete, nella nazione più cristiana d’Africa. Un’occasione per imparare alcune lezioni di storia e di evangelizzazione

Il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggiava il presidente ruandese Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria, mentre il presidente era di ritorno da un colloquio di pace. Da chi fu lanciato quel missile non è mai stato chiarito, ma quello fu comunque l’inizio del massacro più grave del XX secolo, il genocidio ruandese. Le milizie dell’etnia maggioritaria del Ruanda, gli hutu, scatenarono la folle violenza contro la minoranza tutsi, la cui formazione politico-militare (Fronte Patriottico Ruandese, FPR) aveva firmato pochi mesi prima un accordo di pace con il governo. La mattanza andò avanti per cento giorni, le vittime furono circa un milione, non solo tutsi ma anche hutu imparentati con i tutsi. Si fermò a metà luglio quando il FPR riuscì ad avere la meglio sull’esercito governativo e prese il controllo di tutto il paese. Ma certo la cosa non finì lì, perché la conseguenza immediata fu che oltre un milione di hutu dovettero fuggire dal paese e due anni dopo nei campi profughi del Congo furono milizie tutsi a compiere massacri tra gli hutu.
E a distanza di venti anni non si può certo dire che la vicenda sia risolta o sulla via di una risoluzione. Del resto, un massacro di tali proporzioni genera ferite che attraversano i secoli.
Però ricordare il genocidio del Ruanda dovrebbe anche servire a fare un bagno di realtà, guardando per una volta al di là dei luoghi comuni e del politicamente corretto e imparare alcune lezioni che, se non possono riavvolgere il nastro della storia, possono almeno evitare tragici errori di prospettiva nel valutare i rapporti e i conflitti tra popoli.
La cosa che maggiormente salta agli occhi è il modo in cui la strage è stata compiuta: a colpi di machete e bastoni chiodati. Non kalashnikov, mortai, missili, bombe a mano. Machete, soprattutto, e bastoni chiodati, ovvero attrezzi di uso comune in Africa (il machete) o di facile ed economica preparazione. È un dato di fatto che smentisce il solito luogo comune, molto in voga anche tra i cattolici, che lega la guerra e l’esplosione della violenza alla disponibilità di armi. Così succede che ogni volta che si deve raccontare il perché e il per come di una guerra ce la si prende con chi commercia armi. È certo che la disponibilità di armi sofisticate può aggravare anche di molto le conseguenze di una violenza, ma non bisogna mai dimenticare che a fare la guerra è l’uomo non le armi. E quando si odia, quando si vuole distruggere l’altro lo si fa anche senza fucili o bombe, si trasforma in arma qualsiasi oggetto di uso comune o anche con le nude mani. Lo vediamo nella cronaca quotidiana, lo stesso vale per i popoli. Quello del Ruanda è stato il peggiore massacro del XX secolo e il ruolo dei trafficanti d’armi è stato marginale.
Questa semplice evidenza porta anche a dover riconoscere l’esistenza del male che, come dice il Vangelo, nasce da dentro l’uomo, non è frutto di istituzioni e sistemi sociali. Il desiderio di sopraffazione, l’invidia sociale, l’odio nascono nel cuore dell’uomo ed è intervenendo a questa profondità che si può trovare la risposta adeguata ai conflitti. Si illude chi pensa che basti un trattato che limiti il commercio delle armi, o l’imposizione di un sistema democratico (che poi viene quasi sempre erroneamente identificato con lo svolgimento di libere elezioni) per risolvere i problemi, le tensioni e i conflitti tra popoli e tra gruppi sociali. Addirittura, il caso del Ruanda dimostra che l’(imperfetto) equilibrio sociale che aveva retto nel periodo pre-coloniale e coloniale è andato in crisi con l’indipendenza e il tentativo di vivere in modo “democratico”: lì è iniziata una guerra civile che nel 1994 ha avuto appunto il suo culmine.
Soltanto una reale conversione del cuore, che porta a riconoscere nell’altro un fratello e a rispettare l’inviolabilità e la sacralità di ogni vita umana può generare anche un cambiamento sociale. Solo l’annuncio cristiano ha questa pretesa e questa capacità di cambiamento del cuore. Ma proprio qui si inserisce un problema: perché la popolazione ruandese è in maggioranza cristiana (poco più del 50% sono i cattolici, con le varie denominazioni protestanti si arriva al 90%), e questo è un grande punto di domanda per i missionari che hanno evangelizzato questa regione. Come è stato dunque possibile che in quello che viene considerato il “paese più cattolico” d’Africa, dove negli anni ’30 si diceva che lo Spirito Santo soffiasse come un uragano, sia accaduta una tragedia simile?
È difficile dare una risposta: si è detto che si tratta di una Chiesa molto giovane, visto che l’evangelizzazione è iniziata proprio nel 1900 con l’arrivo dei primi padri Bianchi, e quindi il Vangelo non è entrato ancora in profondità. Si è detto dei limiti di una evangelizzazione legata alla potenza coloniale di turno, in questo caso il Belgio. Ma si tratta comunque di ragioni insufficienti: Pietro e gli apostoli hanno certo peccato gravemente anche dopo aver vissuto per anni con Gesù, ma giustamente riterremmo impensabile che intorno all’anno 120 intere comunità cristiane si lasciassero andare a massacri e violenze di ogni genere solo perché erano state evangelizzate da pochi decenni.
In Ruanda c’erano cristiani tra i carnefici e cristiani tra le vittime: l’appartenenza etnica e l’odio tribale hanno prevalso nettamente sull’appartenenza all’unica fede in Gesù Cristo, e questo costituisce un punto di domanda che non può essere eluso. Tanto più che il problema etnico non si limita solo al Ruanda: è comune a diverse Chiese africane e non solo.
In Ruanda la Chiesa è sempre stata in prima linea sia nel campo educativo che sanitario, un po’ come ovunque, ma qualcosa deve essere mancato se si è arrivati a concepire violenze di quel genere.
Il problema poi riguarda anche la comunità internazionale, e soprattutto le Nazioni Unite. Non tenere conto della realtà del male – che null’altro è che la dottrina del peccato originale – ha come conseguenza l’incomprensione profonda di ciò che accade e la complicità, più o meno consapevole, nel compiere il male. Le Nazioni Unite in Ruanda hanno commesso un gravissimo peccato di omissione, ignorando volutamente quel che stava accadendo. Anche qui, il Ruanda non è stato un caso isolato, basti pensare a cosa è successo in Bosnia, sempre negli anni ’90, soprattutto nell’assedio di Srebrenica. C’è stata una volontà di non intervento, trincerandosi dietro a principi astratti di non ingerenza, che ha aggravato le conseguenze del conflitto. E anche dopo le cose non sono andate meglio: nel 1995 è stato istituito un Tribunale penale internazionale per il Ruanda con sede ad Arusha, in Tanzania, che ha preteso di praticare la giustizia e risolvere il problema tra tutsi e hutu in un’aula di tribunale. È stato un fallimento clamoroso: sono state messe in galera 137mila persone, diverse migliaia sono morte soltanto per le condizioni inumane in cui erano detenute, ma di sentenze ne sono arrivate solo poche decine. Per la popolazione del Ruanda non è cambiato nulla, in compenso la macchina della giustizia (si fa per dire) è costata cento milioni di dollari l’anno.

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«Invochiamo il Signore perché accolga nella sua misericordia le vittime, dia conforto a chi soffre e sostegno a chi si prodiga per lenire le piaghe del corpo e dello spirito. Chiediamo al Signore dell’universo di illuminare le menti di quanti portano responsabilità, perché ritrovino pensieri di pace, favoriscano la riconciliazione, uniscano gli sforzi per la ricostruzione e per un nuovo e sereno progresso. Voglia Iddio che la comunità internazionale non resti insensibile all’appello che proviene da tanta sventura ed offra ogni necessaria collaborazione ed aiuto».
(Giovanni Paolo II, Appello per il Ruanda nella Catechesi generale del 28/11/1990).

IL TIMONE – Marzo  2014 (pag. 18 – 19)  

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