Il Santo Padre ha ripercorso i tratti salienti della vita di Agostino alla luce della sua conversione. Per favorire conversioni religiose e culturali nel mondo di oggi bisogna anzitutto desiderarle. Alcuni importanti cambiamenti culturali in corso.
Nell’omelia della santa Messa celebrata a Pavia durante la visita apostolica del 21 e 22 aprile, il santo Padre ha naturalmente dedicato molte parole al suo “maestro” sant’Aurelio Agostino, il grande padre della Chiesa, pastore e difensore della fede, nato il 13 novembre 354 a Tagaste, una piccola città della Numidia, oggi Algeria, e morto a Ippona il 28 agosto 430. Nell’omelia che gli ha dedicato, papa Benedetto XVI ha trattato il tema della conversione, o meglio delle tre conversioni che si possono trovare nella vita del santo vescovo di Ippona. La prima è quella per così dire “formale”, quando Agostino accoglie il dono della grazia divina facendosi battezzare da sant’Ambrogio a Milano nella vigilia pasquale del 387. Ma la conversione è l’inizio di un percorso al seguito del Signore Gesù e dura tutta la vita. Così è anche per il convertito Agostino, che accetta per la seconda volta la volontà di Dio che gli chiede di rinunciare alla quiete della vita contemplativa nella quale aveva trascorso in Africa i primi tre anni successivi al battesimo, per diventare sacerdote e poi vescovo, imparando a tradurre in un linguaggio accessibile a tutti il frutto dei suoi studi e della sua riflessione sulla Parola di Dio. Agostino diventa così un pastore della Chiesa, ma la sua conversione non si esaurisce nello spendersi a favore di tutte le persone che Dio gli affida. Nella malattia che occupa l’ultima parte della sua vita terrena, Agostino ritorna a percorrere l’itinerario dei convertiti, facendosi scrivere a caratteri cubitali i salmi penitenziali per poterli leggere anche dal giaciglio dove giaceva infermo e aspettando a ricevere l’Eucaristia per un certo periodo di tempo, come accadeva ai penitenti.
La conversione nel mondo moderno
La conversione è la grande speranza del nostro tempo, così come dell’epoca di Agostino. Se il santo vescovo era l’esempio di un mondo e di una cultura che “entravano” nella fede perché avevano ricercato la verità fino a quando, finalmente, la verità era entrata addirittura nel mondo, facendosi toccare e mangiare, anche oggi viviamo un’epoca di grande crisi di una cultura e di una civiltà che hanno cercato per almeno due secoli di sostituire la fede cattolica, senza riuscirvi. Il mondo occidentale e cristiano, la cristianità che cominciava proprio nell’epoca in cui Agostino scriveva il De Civitate Dei, si spegne con il 1989, l’anno della caduta del progetto ideologico più ambizioso, quello comunista, che peraltro lascia un mondo in frantumi.
È questo il mondo che ha bisogno di una nuova evangelizzazione, ultima possibilità di rinascita dopo secoli di logorio ideologico e dopo la sfida che viene dal fondamentalismo islamico e dai suoi aspetti terroristici, resi evidenti dall’attentato dell’11 settembre 2001, ma già attivi da molti anni.
Qui si fermano le somiglianze con il mondo di Agostino, che stava finendo ma che conosceva al suo interno la feconda giovinezza del cristianesimo e dei popoli bar-bari che si stavano convertendo. La giovane Chiesa di Ambrogio e Agostino oggi sopravvive dopo due secoli di persecuzione culturale e a volte anche fisica, conosce una nuova giovinezza in Africa seppure con tanti problemi, e una fase piena di incertezze, opportunità e grandi battaglie nella vecchia Europa.
Eppure, la conversione rimane l’unica speranza contro la scomparsa, il suicidio demografico, la depressione che attanagliano l’uomo occidentale e cristiano. Quest’uomo esprime la generazione del 1968, passata attraverso l’esistenzialismo triste di Sartre, la follia lucida e affascinante di Nietzsche, l’utopia impregnata di violenza e di sangue del comunismo, l’odio prodotto dai tanti e diversi nazionalismi europei, riemersi dopo la caduta del Muro di Berlino soprattutto nella ex Jugoslavia. La Chiesa è stata ferita, perseguitata, emarginata, ma c’è ancora a differenza dei suoi nemici e si prepara a una “nuova evangelizzazione” dei Paesi di antica tradizione cristiana. Ma la Chiesa è diventata minoritaria nel mondo europeo e come tutte le minoranze ha dovuto adeguare il proprio modo di presentarsi al prossimo. È questo il senso dell’invito alla simpatia per l’uomo contemporaneo di cui si tratta nei documenti del Concilio Vaticano II, che non significa simpatia per gli errori e le ideologie della modernità. Simpatia è la condizione per instaurare una relazione, per avviare un dialogo. Se veramente i cattolici desiderano la conversione del loro prossimo, se desiderano essere missionari nel loro tempo, bisogna che abbiano e manifestino simpatia verso le persone alle quali si rivolgono. È la logica del buon senso, semplicemente.
Alcuni importanti cambiamenti culturali nel nostro tempo
Tanto più che alcune persone rappresentative della cultura del nostro tempo, lontane dalla fede cristiana, hanno avvertito prima e più di tanti altri il fallimento delle ideologie che promettevano di cambiare il mondo. Si possono fare questi nomi, accanto a molti altri: Giuliano Ferrara, Eugenia Roccella, Marcello Pera. Ognuno di loro ha messo in discussione un pezzo di modernità, il comunismo, il femminismo, il laicismo. E hanno così incontrato la Chiesa cattolica anche senza appartenervi, almeno per il momento. In questo senso non sono dei convertiti come Agostino, ma la loro visione del mondo e dell’uomo, in ogni caso, sta convergendo su molti punti con quella cattolica. Anche per Agostino accadde la stessa cosa, prima l’empatia culturale, poi finalmente la grazia della sottomissione del cuore. Ma questo è un dono e nessuno sa come e quando possa verificarsi nel segreto della coscienza di una persona.
Lo stesso papa Benedetto XVI, peraltro, ci suggerisce di operare in questo senso, dialogando con queste persone, apprezzando e favorendo il loro itinerario. Lo ha fatto prima di salire sul soglio pontificio in numerosi libri e dialoghi pubblici, lo ha raccomandato a Verona, in occasione del quarto convegno nazionale della Chiesa italiana, quando ha raccomandato di collaborare anche con le numerose persone di cultura che hanno individuato e denunciato il pericolo che l’Italia abbandoni le proprie radici cristiane.
Non sarà facile. Proprio tempo fa, in un salotto milanese, mi è capitato di proporre di mettere a tema di futuri incontri le considerazioni di Ferrara sul Foglio a proposito della stanchezza delle nazioni occidentali e del rischio di questa prospettiva. Mi trovai contestato da un docente cattolico, neppure eccessivamente “adulto”, ma sufficientemente “acido” per ricordarmi il passato di Ferrara. Persi un poco la pazienza davanti a tanta “carità pelosa” che si riempie la bocca di belle parole e poi non sa aspettare, non sa aiutare le persone che si stanno “avvicinando”, e intravede sempre un “complotto” in ogni cambiamento di opinione. È il clericalismo peggiore, quello che dovrebbe imparare dalla vicenda umana di Agostino o di san Paolo.
Ricorda
«L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per una tale testimonianza. Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo anzi estraneo. […]
L’Italia però, come accennavo, costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, – e lo vediamo! – che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in at-to un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie. È inoltre sentita con crescente chiarezza l’insufficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’etica troppo individualista: in concreto, si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede. La Chiesa e i cattolici italiani so-no dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto ad esserne consapevoli. Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere, pertanto, quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia».
(Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19 ottobre 2006).
IL TIMONE – N.64 – ANNO IX – Giugno 2007 pag. 58-59