Don Basti, che cosa pensa – da scienziato e da prete – della possibilità di «dimostrare» l’esistenza di Dio?
«Come filosofo della scienza sostengo che lo scienziato in quanto tale non ha di per sé nulla da dire circa la dimostrabilità o meno dell’esistenza di Dio. Tali problemi, infatti, sono fuori della portata della scienza e tutto ciò che gli scienziati affermano a questo proposito “pro” o “contro” possono dirlo solo come persone dotate delle loro convinzioni, rispettabilissime ma che non valgono né più né meno di quelle di qualsiasi altra persona. Confondere convinzioni personali e prestigio scientifico è insomma “millantato credito”. Come prete e come teologo dico poi che Dio, la sua esistenza o qualsiasi sua proprietà di cui la fede ci parla non si possono “dimostrare”. Come teologo cattolico e come filosofo posso però aggiungere che l’esistenza del Dio in cui credo è compatibile con ciò che una determinata metafisica – quella di san Tommaso e non quella di Kant, per esempio – può dimostrare. Ovvero l’esistenza di un Principio o Fondamento Assoluto dell’universo e di tutto ciò che contiene. Un Principio che come tale – quest’affermazione è un teorema, non una convinzione – non può appartenere a ciò che fonda: un po’ come le fondamenta di una casa, per essere stabili, devono a loro volta poggiarsi su ciò che non è “casa” (la roccia). Si tratta dunque di un Principio trascendente l’universo, come lo è il Dio della Genesi, il Dio dell’ebreo, del cristiano e del musulmano. Un buddhista, un induista o un taoista non possono invece dire altrettanto perché il dio in cui credono non è trascendente il mondo».
San Tommaso ha cercato le famose «cinque vie» per arrivare con la ragione più vicino a Dio. Pascal invece ha sostenuto che la fede, alla fine, è sempre una «scommessa». Lei da che parte sta?
«È ovvio che sto dalla parte di Tommaso, il quale mi ha insegnato ciò che ho appena cercato di dire con parole diverse. Cioè che la dimostrazione di un Principio trascendente che tiene nell’esistenza il mondo, un po’ come noi facciamo esistere i nostri pensieri finché li pensiamo (l’analogia è di sant’Agostino), è una “via” che le persone ragionevoli possono usare per accedere al Dio della rivelazione e della fede ebraico-cristiana. Riguardo alla “scommessa” pascaliana, ricordo che Pascal – da raffinato matematico e uomo di scienza qual era, oltre che sincero credente – non intendeva certo dire ciò che gli attribuiamo: dare la vita per una scommessa è immorale, come il gioco d’azzardo perverso della “roulette russa”. Pascal intendeva: le convinzioni di fede che sostengono l’esistenza di un uomo, che danno senso e dignità alla vita, alla sofferenza, alla morte, non possono mai essere oggetto di dimostrazione. La ragione può essere solo anticamera della fede. Per entrare in essa e godere della sua consolante amicizia ci vuole ben altro: occorre mettersi in gioco, avere il coraggio di rischiare la vita. Chi crede non può essere mai un omiciattolo, un pusillanime, è sempre e comunque un eroe: uno che dà la vita per un ideale, per delle persone, per una Persona».
Da scienziato: lei Dio lo vede più nell’infinito o nell’infinitamente piccolo? Nelle galassie o nelle particelle atomiche?
«Per quanto detto, uno scienziato che vedesse Dio nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande è solo uno che ha bisogno di un buon ottico: Dio non è lì, è “oltre”. Credo che possa bastare».
La scienza (e con essa la ragione) viene spesso dipinta come «nemica» della fede. Lei, prete e filosofo della scienza, come concilia le cose?
«Due popoli diventano “nemici” solo se sconfinano, se l’uno pretende di appropriarsi di ciò che appartiene all’altro. Paradossalmente, ma non senza fondamento, è solo la ragione che può aiutare la scienza e la fede a fare ciascuna serenamente il proprio lavoro e semmai a collaborare per il bene superiore dell’umanità. E “ragione” non vuol dire solo “intelligenza”, significa anche “moralità”, onestà intellettuale. “Scienza” e “fede”, meglio “uomini di scienza” e “uomini di fede” diventano nemici solo se diventano gli uni o gli altri – o spesso ambedue – schiavi dell’irragionevolezza e della disonestà».
Come giudica la posizione della Chiesa nei riguardi della scienza?
«È una posizione che mi fa essere orgoglioso di appartenervi, come uomo di fede e come “amante della scienza”. Anzi, farò una confessione: uno dei motivi che, come giovane prete, mi convinse a proseguire in questa strada di ricerca e di attività, sempre coniugata – grazie a Dio – con un’intensa attività anche nella pastorale ordinaria, è stato uno storico discorso di Giovanni Paolo II, pronunciato nel 1980 a Colonia, la patria di sant’Alberto Magno. Agli scienziati lì riuniti il Papa ricordò che spetta oggi alla Chiesa lavorare perché la scienza ritrovi la via verso la “verità” e la “razionalità scientifica” autentica, contro la tentazione dell’irrazionalismo, del relativismo e della strumentalizzazione tecnocratica e scientista che l’affligge. Come prete e come credente spero solo di dare un piccolissimo contributo a questa splendida missione della Chiesa».
STOQ
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