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11.12.2024

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Scienza
31 Gennaio 2014

Scienza


 

Il 23 febbraio 2010, sul Foglio, Roberto Volpi ha fatto il punto sulla “scienza”. Val la pena riportarne alcuni passi. Si comincia ricordando l’ultima frase («…pena una catastrofe, per il poco tempo disponibile») del libro di Lester R. Brown I limiti della popolazione mondiale, che in edizione originale suonava addirittura così: In the human interest (Nell’interesse umano). Si era nel 1974. Ebbene, «La catastrofe demografica non c’è stata (…) Il pianeta, d’altro canto, supporta e sopporta piuttosto bene la popolazione esistente». Infatti, il problema è, tutto politico, di redistribuzione, non di produzione, del cibo. «Quello demografico – la “bomba demografica” – è stato il primo grande problema che la comunità degli “scienziati sociali” ha sollevato con una mai venuta meno insistenza catastrofista già a partire dalla metà degli anni Sessanta». Per quanto riguarda le risorse, «il mondo si sarebbe depauperato irreversibilmente, nel giro di più o meno tre decenni». Ma nessuno fa la domanda delle domande: com’è che «la grande scienza – quella che occupa le posizioni di preminenza, che vanta finanziamenti e ascolto, che comanda nelle università e nei centri di ricerca, che ispira strategie e indirizza i potenti e la politica – non ha azzeccato proprio le più impegnative e importanti previsioni? E com’è che continua a prefigurare scenari che vengono regolarmente smentiti»?
Ora è la volta del global warming, il cosiddetto riscaldamento globale, con le sue truffe e i suoi imbonitori-profittatori. «In ordine di tempo, un’altra verità, quella dell’influenza A (N1H1), contrabbandata per una “nuova spagnola”», ha «lasciato sul terreno un paio di miliardi di vaccini inutilizzati che nessuno sa dove mettere».
E ha forse la «scienza economica previsto la crisi finanziaria che, partita dagli Stati Uniti, avrebbe interessato il mondo intero? Naturalmente no». Come se niente fosse – e senza che mai qualcuno chieda scusa – «si moltiplicano gli appuntamenti globali degli esperti di questo e di quello». Per esempio, la Conferenza mondiale sull’Aids: «Ne hanno già fatte diciassette, si viaggia verso la diciottesima. L’ultima, a Città del Messico nell’agosto del 2008, ha fatto segnare cifre da capogiro: tra i venti e i trentamila tra biologi e genetisti, medici e virologi, operatori sanitari e uomini delle istituzioni sanitarie, e circa quattromila lavori scientifici o presunti tali presentati». Mentre l’Onu, riguardo ai malati, «continua a sfornare, anno dopo anno, le stesse cifre». E «non cambia neppure la distribuzione geografica: poco meno del 70 per cento delle persone viventi con Hiv o Aids e il 75 per cento dei morti sono, e continueranno a essere concentrati, nell’Africa subsahariana». Senza che mai si riesca a trovare un vaccino per il virus «più indagato in assoluto».
Nel frattempo la litania è sempre quella: «i fondi per la ricerca sono pochi, si sente dire a ogni angolo di strada, specialmente in Italia». E giù con le arance, le azalee, i Telethon. Una marea di denaro che però non ferma «il mantra delle società opulente d’oggigiorno: “Bisogna investire nella ricerca” ». Naturalmente, senza che mai nessuno renda conto: «Mai che qualcuno accenni alla possibilità di una valutazione di efficacia dei soldi spesi». Qui il Volpi fa una considerazione: «E il gioco della ricerca si snoda in buona parte tra le sponde dell’opportunismo per un verso e del conformismo per l’altro. L’opportunismo è quello che la porta a dirigersi prevalentemente dove c’è qualcosa di più dell’odore dei soldi. È il conformismo a scegliere di infilarsi in ambiti e aree capaci di fare presa, anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, sul grande pubblico, e dunque di conferire più potere». Ovviamente, «per vendersi al meglio deve agitare costantemente il peggio». Per questo ormai «il catastrofismo non è una scelta, è una necessità. Non c’è nessuna genia più catastrofista degli scienziati d’oggigiorno». Sentite ora: «Ed è per questo, del resto, che la scienza di oggi sente così fortemente la concorrenza della religione, perché è sul terreno dei mali del mondo che ormai la scienza pretende di avere l’ultima parola, se non proprio il monopolio delle parole e degli atti». Il che è esattamente quanto aveva paventato la Chiesa condannando Galileo e la sua pretesa di far avere l’ultima parola alla scienza.
La Chiesa aveva dunque tutte le ragioni nel cercar di impedire che la scienza diventasse la nuova religione infallibile e indiscutibile. E i suoi sacerdoti in camice turlupinassero l’umanità. Sì, una religione, coi suoi dogmatismi e la sua Inquisizione (ricordate il caso Di Bella? e la condanna senza appello dell’omeopatia? e quella altrettanto preventiva del creazionismo?). D’altra parte, con ciò la Chiesa faceva anche un favore alla vera scienza, perché «conformismo chiama conformismo» e questo «è micidiale per la ricerca». Per esempio: «Se la fisica teorica moderna è “stringhista”, nel senso di improntata pressoché in toto alla teoria delle stringhe, è lì che si concentreranno i finanziamenti. Ma se finanziamenti, incarichi e riconoscimenti vanno quasi del tutto in quella direzione, chi si azzarderà a esplorare qualche direzione diversa? Ma se nessuno o quasi si avventura su terreni insoliti, impervi e pure ingenerosi, che ne sarà dello spirito stesso della ricerca?». Altro esempio: «La previsione probabilistica di un grave evento patologico nella vita di una persona, come il tumore o l’infarto, dedotta dalla lettura del genoma, ancorché scientificamente del tutto opinabile (…) verrà contrabbandato come il più grande rimedio». Ma provocherà ben altre invenzioni, quelle «per fare soldi, valanghe di soldi con tecniche imbonitrici non così lontane dal modello Vanna Marchi». Sistema a lungo andare suicida, perché la gente smetterà di credere – come sta già facendo – alla scienza e ai suoi uomini. A tutti, ahimè, anche quelli seri.

 

 

 

IL TIMONE N. 98 – ANNO XII – Dicembre 2010 – pag. 20 – 21

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