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13.12.2024

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Se il Papa non va mai bene…
31 Gennaio 2014

Se il Papa non va mai bene…

 

 

Qualunque cosa dica o faccia il Papa, c’è sempre qualcuno che si lamenta. La recente visita di Benedetto XVI ad Auschwitz non è sfuggita a questa regola.
Che non risparmiava nemmeno Giovanni Paolo II.

C’è una conclusione che si può legittimamente trarre dopo la storica visita di Benedetto XVI al lager di Auschwitz ed è questa: qualunque gesto il Papa faccia, qualunque parola dica, non è mai abbastanza. Avrà sempre detto troppo poco, sarà esaminato e criticato con puntigliosi conteggi su ogni virgola, ogni aggettivo, ogni espressione. L’errore che si può fare (e che taluni commentatori hanno fatto volendo forzosamente contrapporre Ratzinger a Wojtyla) è quello di pensare che queste critiche levatesi soprattutto da autorevolissimi esponenti del mondo ebraico riguardino Benedetto XVI perché Papa tedesco che, a causa della sua formazione e provenienza, non sarebbe in grado di continuare con i gesti «profetici» del grande predecessore.
Niente di più falso. Basta voltare lo sguardo indietro per rendersene conto.
Nel giugno 1979 Giovanni Paolo II, primo Papa polacco nella storia, durante il suo primo viaggio in patria volle visitare Auschwitz: gesto storico, pietra miliare. Certo, eppure anche allora Wojtyla fu criticato, dato che nel suo discorso non pronunciò mai la parola Shoah. Facciamo un passo avanti e arriviamo a un altro appuntamento con la storia: la prima visita di un Papa alla sinagoga di Roma, avvenuta nel 1986. Evento di portata epocale. Eppure preceduto da critiche (Giovanni Paolo II, a detta di molti esponenti del mondo ebraico, non avrebbe dovuto portare la croce pettorale, che invece il Pontefice si guardò bene dal togliere) e soprattutto seguito da commenti delusi. Sì, perché non bastò la ferma condanna dell’antisemitismo che Wojtyla fece. Mancava, quella volta, la menzione esplicita dello Stato di Israele, come notò con «rincrescimento» il rabbino di Francia Renè-Samuel Sirat.
Non è finita. Nel 1998, la Santa Sede pubblica un importante documento, «Noi ricordiamo», nel quale sono deplorati «profondamente gli errori e le colpe» di molti cristiani e si riconosce che i sentimenti antigiudaici coltivati per secoli dall’Europa cristiana facilitarono le persecuzioni hitleriane.
In una nota di quel testo si citava anche Pio XII, ricordando che si oppose all’antisemitismo fin dalla sua prima enciclica e che salvò – personalmente o attraverso i suoi rappresentanti – centinaia di migliaia di ebrei, dato di fatto documentato e ampiamente testimoniato. Ovviamente anche quel documento venne criticato. Personalità ebraiche italiane, come Tullia Zevi, si domandarono: «Come si fa a dire che tutta la Chiesa non ha avuto colpe?», mentre un esponente del Congresso mondiale ebraico disse che gli israeliti «si attendevano un’autocritica sul ruolo svolto dalla Chiesa in quanto tale».
Nel 2000, Giovanni Paolo II, già vecchio e minato nel fisico dalla malattia, compie un viaggio straordinario in Terra Santa e visita lo Stato d’Israele. Entra al museo della Shoah, il memoriale dello Yad Vashem, dove pronuncia una chiara condanna dell’antisemitismo. Credete che basti?
Ovviamente no. Le sue parole vengono giudicate «troppo blande» e il Congresso ebraico europeo fa osservare che «il Papa ha taciuto sui silenzi del Vaticano durante il regime nazista».
Veniamo ora a Benedetto XVI, che nel suo primo viaggio, quello a Colonia dell’agosto 2005, ha visitato la sinagoga della città definendo la Shoah un crimine inaudito e affermando che oggi stanno emergendo «nuovi segni di antisemitismo ». Tutto bene? Ovviamente no. Abraham Lehrer ha commentato: «Se avesse detto una parola di più sarei stato felice»: manca infatti, questa volta, un cenno esplicito ad Israele.
Nel gennaio 2006, nel suo primo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Ratzinger menziona Israele esplicitamente dicendo che «deve poter esistere pacificamente», in un frangente nel quale riemerge con forza da varie parti del mondo islamico la volontà di cancellarlo. Credete possa bastare? Ovviamente no. In una dichiarazione raccolta a caldo da un’agenzia, l’ambasciatore israeliano presente alla cerimonia critica il discorso papale perché non c’era una condanna «esplicita e diretta» contro il presidente iraniano Ahmadinejad.
Con questi precedenti, come si poteva pensare che Benedetto XVI, nonostante il peso opprimente che si leggeva sul suo volto all’ingresso di Auschwitz (tappa inizialmente non prevista ma esplicitamente voluta dal Papa), nonostante le sue parole sulla Shoah, nonostante l’esplicita menzione della volontà nazista di annientamento sistematico e totale del popolo ebraico, uscisse indenne dalle critiche? Amos Luzzatto ha rimproverato il Papa per aver usato la parola Shoah «solo due volte»; altre autorità, ebraiche e no, si sono dette deluse perché Benedetto XVI avrebbe deresponsabilizzato il popolo tedesco e avrebbe omesso un esplicito «mea culpa».
Insomma, qualunque cosa il Papa e la Chiesa dicano e facciano, qualsiasi gesto, qualsiasi riconoscimento, non è mai adeguato. Non citare la Shoah come Shoah – come fece Wojtyla nel 1979 – è grave; farlo solo due volte, va meglio ma è insufficiente; parlare dello sterminio degli ebrei va bene ma ricordare due grandi santi cattolici (Benedetto XVI come Giovanni Paolo II sono Papi, non gran rabbini!) come Kolbe e la Stein, è problematico e andava evitato.
È come se si guardasse ogni discorso e ogni intervento, non – come logica vorrebbe – alla luce del percorso già compiuto in precedenza, delle parole già dette, dell’avvicinamento già avvenuto, ma come qualcosa di isolato e di avulso, che per passare l’attento e puntiglioso esame deve per forza contenere sempre tutto, compreso un numero adeguato di citazioni e di parole-chiave prestabilite.

IL TIMONE – N. 55 – ANNO VIII – Luglio/Agosto 2006 – pag. 14 – 15

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