Lo ha deciso la Corte di Cassazione: a certe condizioni si può uccidere un malato in stato vegetativo. E' il primo passo sulla strada dell'eutanasia legale. A compierlo, una magistratura al servizio della "cultura della morte".
L'eutanasia entra nell'ordinamento giuridico italiano. E lo fa passando dalla porta di servizio, per non disturbare nessuno: è la Corte di Cassazione – con la storica sentenza 21748/07 – a decretare che un malato in stato vegetativo permanente (SVP) può essere ucciso per motivi pietosi. È questo il succo della sentenza con la quale nell'ottobre scorso il tribunale supremo si è pronunciato sul caso di Eluana Englaro, e che giustamente ha conquistato la prima pagina di quasi tutti i giornali italiani.
Una storia drammatica
Eluana è una ragazza di Lecco che dal 1992 vive in stato vegetativo: è alimentata e idratata con un sondino naso gastrico, non si muove e non parla con chi le sta intorno, anche se i suoi occhi si aprono e chiudono. In queste condizioni, l'alimentazione e l'idratazione sono determinanti per mantenere in vita il paziente: se si smettesse di nutrire Eluana, la causa diretta di questa decisione sarebbe la morte per fame e per sete.
Come accaduto già nel caso tristemente famoso di Terri Schiavo. Il padre di Eluana si batte da anni perché un tribunale italiano lo autorizzi a interrompere l'alimentazione e l'idratazione, provocando la morte di sua figlia. Prima il tribunale di Lecco, poi la Corte d'Appello di Milano per ben due volte (nel 1999 e nel 2003) respingono l'istanza di Beppino Englaro. Che promuove allora ricorso alla Corte di Cassazione. Dove finalmente trova soddisfazione, nonostante il parere fermamente contrario del Procuratore Generale.
I contenuti della sentenza
La decisione della Corte di Cassazione non comporta l'immediata possibilità di far morire la Englaro. Si dovrà infatti svolgere un nuovo processo, in una sezione della Corte d'Appello diversa da quella che aveva risposto picche alla richiesta di eutanasia. Tuttavia, ciò che più conta – e che è destinato a imprimere una svolta epocale nella nostra giurisprudenza – sono i criteri che la Corte di Cassazione ha stabilito. Li proponiamo in sintesi, tenendo conto che le motivazioni stese dalla Corte occupano una sessantina di pagine.
Si potrà far morire un paziente in SVP, sospendendo la somministrazione di acqua a e di cibo, qualora siano accertati due requisiti:
a. la irreversibilità del quadro clinico;
b. la volontà del paziente di morire.
La Corte si è anche pronunciata sulla natura dell'alimentazione e dell'idratazione alimentare: da un lato, ha ammesso che questi atti non costituiscono di per sé accanimento terapeutico; ma ha stabilito che devono essere considerati un trattamento sanitario. Dunque, possono essere sospesi e possono essere rifiutati dal paziente.
Obiezioni elementari
La decisione della Corte di Cassazione offre il fianco a una fitta raffica di obiezioni. Alcune di carattere specifico e tecnico, mediche e giuridiche; altre, inerenti l'ordinamento in generale e i principi e i valori giuridici che fondano uno stato di diritto. Cominciamo dalle questioni specifiche:
a. qualunque medico onesto può documentare che non esiste una diagnosi definitiva della irreversibilità dello stato vegetativo. Sappiamo che più passa il tempo, e più il "risveglio" dei pazienti in SVP è improbabile, ma nessuno è sicuro che non si verificherà. È vero casomai il contrario: se smettiamo di alimentare e idratare un paziente in SVP, certamente non si risveglierà, perché lo avremo ucciso nel giro di qualche giorno.
b. Il consenso di un paziente in SVP è evidentemente presunto, cioè ricostruito sulla base della testimonianza di parenti e amici; un consenso che, in base al diritto vigente, non basta nemmeno a determinare atti di disposizione patrimoniale; figuriamoci a decidere della vita e della morte. Di più: quel consenso si riferisce a ciò che (forse) il paziente pensava quando era cosciente; nessuno può garantire che quella sia la volontà del paziente nel momento in cui si procede a interrompere l'alimentazione. Si potrebbe invocare il testamento biologico, ma dato che per ora non esiste (tanto meno nel caso della Englaro) perché la Corte di Cassazione ragiona come fosse già legalizzato?
c. Alimentazione e idratazione non sono affatto dei trattamenti medici, perché cibo e acqua non costituiscono una medicina, ma una forma elementare di assistenza, che è sempre dovuta.
Per quanto concerne le questioni di fondo, fra le altre:
a. la Corte di Cassazione ha demolito un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico: l'indisponibilità del diritto alla vita. Ha letteralmente creato "nuovo diritto", un nuovo principio: io ho diritto alla morte, seppure a certe condizioni.
b. La Corte introduce così un conflitto gravissimo fra il dovere di medici e infermieri di curare, e il presunto diritto del paziente a essere "terminato".
c. Nulla impedirà che i "principi" inventati dalla Cassazione siano estesi ad altre categorie di pazienti e più in generale di cittadini.
L'ideologia sotto la toga
A capo della Prima Sezione civile – quella che ha scritto la sentenza sul caso Englaro – siede il magistrato Maria Gabriella Luccioli. Si tratta di un giudice che – secondo le parole dell'insospettabile Corriere della Sera (17 ottobre 2007, pagina 2) – «negli ultimi vent'anni ha praticamente riscritto il diritto di famiglia a colpi di sentenze. Tutte o quasi in favore delle donne». Tanto per dirne una: è stata la Luccioli a sollevare la questione di costituzionalità delle norme che prevedono per i figli legittimi l'obbligo di cognome paterno. Questione che grazie a Dio è stata respinta dalla Corte costituzionale, ma che ha spinto il parlamento a occuparsene, promuovendo un disegno di legge sul doppio cognome. La Luccioli – prima donna a entrare in Cassazione – è anche la fondatrice dell'Associazione donne magistrato. Insomma: siamo di fronte a una personalità che è lontana anni luce dall'idea (di matrice giacobina) secondo cui il giudice deve essere solo "bocca della legge" e che utilizza lo strumento dell'interpretazione – indubbiamente necessario – in chiave "creativa". Piegando cioè la norma verso il senso che l'ideologia relativista e progressista preferisce assegnare alla lettera della legge. Un osservatore più attento si accorge così che la decisione della Cassazione non è una semplice operazione tecnica, una ortodossa applicazione della legge generale al caso particolare. Ma, al contrario, siamo alla vera e propria creazione di nuovo diritto, attraverso l'esercizio di una prerogativa che quasi certamente non appartiene al potere giudiziario. In altre parole: se il parlamento non legalizza l'eutanasia, ci pensiamo noi giudici illuminati a fare da apri pista, e a "costringere" il legislatore a venirci dietro. È stato un convinto fautore della "buona morte" come Umberto Veronesi a sostenere apertamente questa interpretazione sulla prima pagina di Repubblica, all'indomani della sentenza. La strategia, insomma, è sempre la stessa: usare l'occupazione gramsciana della società per sovvertire l'ordine naturale, senza sparare nemmeno un colpo. È accaduto con l'aborto procurato, in parte con la fecondazione artificiale.
Ora è la volta dell'eutanasia.
Ricorda
«Ma nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali».
(Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 15).
IL TIMONE – N.68 – ANNO IX – Dicembre 2007 pag. 12-13