“Il mio pensiero dominante era che nella nostra età è stato dimenticato che cosa significa esistere e che cosa significa interiorità”
(Soeren Kierkegaard)
Settimo figlio di un agiato commerciante, Soeren Kierkegaard nacque a Copenhagen il 5 maggio 1813: il clima familiare improntato a una religiosità severa, la morte dei genitori e di tre fratelli e la sensazione di essere vittima di una sorta di maledizione contribuirono a rendere la sua personalità estremamente sensibile e drammaticamente attraversata da una costante vena di sofferenza. Non intraprese la carriera di pastore, alla quale si era pure avviato, né coronò con le nozze il fidanzamento con Regina Olsen, ma lo interruppe dopo breve tempo: trascorse tutta la sua breve esistenza – morì l’11 ottobre 1855 – nella meditazione, scrivendo notevoli opere filosofiche, che gli hanno assicurato un posto di primissimo piano nella storia del pensiero occidentale.
La filosofia kierkegaardiana, dominata da una viva e palpitante ansia religiosa, prende le mosse da una decisa critica dell'idealismo, la grande corrente di pensiero sviluppatasi agli inizi del XIX secolo, che ebbe in Hegel il massimo rappresentante. Di essa Kierkegaard contesta il primato attribuito alle realtà sovraindividuali (lo Spirito, la Storia, lo Stato): per il filosofo danese l'unico vero protagonista è “il singolo”, e l'irriducibile individualità di ciascun uomo è la sola categoria filosofica degna di essere presa in considerazione. Di qui un'importante conseguenza: la filosofia non potrà mai diventare una scienza oggettiva, come avrebbe voluto Hegel, bensì rimarrà sempre una riflessione soggettiva nella quale il singolo è direttamente coinvolto (non casualmente, il capolavoro di Kierkegaard resta il Diario) perché non può esistere una riflessione scissa dalla vita concreta, un sapere che non si leghi all'esistenza. Anche per quanto riguarda la condizione dell'uomo, Kierkegaard si differenzia radicalmente da Hegel, che ritiene di poter interpretare e risolvere tutto attraverso la mediazione e la sintesi dei contrasti e delle opposizioni; al contrario, il pensatore danese è convinto che la vita del singolo sia caratterizzata dalla possibilità: l'individuo viene a trovarsi sempre in bilico tra varie opzioni che si escludono a vicenda. Per questo motivo, all'uomo è costantemente richiesto di scegliere, accettando l'inevitabile rischio che è connesso ad ogni scelta: ciascuno sarà ciò che avrà scelto di essere, giocandosi quotidianamente il proprio destino. Tutto ciò fa sì che l'esistenza umana sia drammaticamente segnata dall'angoscia e dalla disperazione: angoscia che deriva proprio dal fatto che l'uomo è completamente libero di operare qualunque scelta, disperazione che è il frutto di quella lacerante tensione che il singolo prova quando si rende conto dell'insufficienza e della finitezza che lo contraddistinguono. Kierkegaard ha individuato tre modi fondamentali di vivere, corrispondenti a tre tipi di scelta che ogni persona può operare: si tratta della vita estetica, di quella etica e di quella religiosa.
Il primo genere di esistenza, simboleggiato dalla figura del Don Giovanni (Kierkegaard dedicò pagine memorabili all'omonima opera mozartiana), è caratterizzato dalla ricerca del piacere momentaneo e di emozioni sempre diverse: esso, tuttavia, conduce ben presto alla noia e all'insoddisfazione, perché dischiude davanti all'uomo il vuoto e il nulla propri della vita dell'esteta. La scelta etica è caratterizzata, a giudizio di Kierkegaard, dall'assunzione da parte di chi la compie di un impegno che richiede serietà e fedeltà: è il caso del buon padre di famiglia, che rimane fedele alla moglie e si assume le responsabilità connesse alla sua condizione di marito, di genitore e di lavoratore. Siamo qui in presenza di una scelta ben più alta di quella dell'esteta, ma non ancora risolutiva del dramma del singolo, che non si sente appagato da essa.
A questo punto, abissalmente differente da tutte le altre, si prospetta la vita religiosa: il singolo, che ha preso sul serio la propria angoscia e la propria disperazione, opta per la fede, aprendosi in modo totale e incondizionato a Dio: non v'è nulla di normale e di tranquillizzante nella vita religiosa, tanto che la figura scelta da Kierkegaard come simbolo di essa è quella di Abramo, l'uomo della speranza impossibile, l'uomo che per obbedire a Dio era pronto, contro qualunque codice etico tradizionale, a uccidere il figlio. La fede cristiana è scandalo e paradosso, e lungi dall'essere riconducibile entro schemi razionali, scompagina i disegni umani; l'Incarnazione di Cristo realizza un'inconcepibile inserzione dell'eterno nel tempo, la sua crocifissione accentua in misura quasi insopportabile l'assurdità della fede che è richiesta al credente: eppure – insiste Kierkegaard – fuori della dimensione della fede, l'esistenza umana è priva di significato. Sembra opportuno sottolineare due fra le numerose caratteristiche della concezione religiosa di Kierkegaard. La prima è costituita dall'evidente carica contestatrice che egli attribuì alla fede cristiana e in nome della quale rivolse aspre critiche alla gerarchia della chiesa protestante danese, colpevole ai suoi occhi di avere annacquato il genuino messaggio evangelico, che, invece, egli desiderava mantenere inalterato nella sua dirompente e provocatoria paradossalità. Infine, Kierkegaard guardò a Gesù Cristo come all'unico salvatore dell'uomo e ricordò a tutti che il Signore non cerca ammiratori, ma imitatori pronti a prendere la croce e a seguirlo.
RICORDA
“Kierkegaard afferma ripetutamente la superiorità del cristianesimo cattolico su quello protestante, ma non giunse ad un'accettazione esplicita del cattolicesimo, come fecero molti, spinti dall'ardore e dalla forza dei suoi scritti”.
(Cornelio Fabro, voce Kierkegaard, in Enciclopedìa Cattolica, voi. VII, col. 692).
BIBLIOGRAFIA
S. Kierkegaard, Diario. Morcelliana, Brescia 1980-83 (con una magistrale introduzione di Cornelio Fabro).
M. Schoepflin, Dall'ammirazione all'imitazione di Cristo, in AA.VV., Kierkegaard. Esistenzialismo e dramma della persona, Morcelliana, Brescia 1985, pp. 203-211.
G. Penzo, Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo. Edizioni Messaggero Padova, Padova 2000.
IL TIMONE N. 14 – ANNO III – Luglio/Agosto 2001 – pag. 28-29