Perché gli iracheni non vedono gli americani come liberatori? Per una ragione culturale: manca nell’islam il concetto libertà. Che è presente solo nell’esperienza cristiana.
Provenendo da una città, Terni, che ha appena commemorato le vittime dei 111 bombardamenti delle forze anglo-americane che iniziarono l’ 11 agosto del 1943, mi è venuto spontaneo paragonare quella “liberazione” di 60 anni fa con quella attuale dell’Iraq. Non c’è dubbio infatti che per quanto deprecabile sia ogni guerra e la perdita di ogni vita umana, quanto accaduto in Iraq sia stato oggettivamente di proporzioni molto più modeste di quanto avvenuto tra il 1943 e il 1944, in tante città italiane ed europee. Soltanto a Terni perirono più di 2mila persone, ben più del totale delle vittime irachene, e la città fu rasa praticamente al suolo, con un accanimento solo in minima parte giustificato. Ripeto: fu il destino riservato a molte altre città italiane, per non parlare di altri episodi discutibili di cui si resero protagoniste le forze alleate (vedi Cassino). Ma ciò che stupisce nel raffronto tra 60 anni fa e oggi è la reazione del dopoguerra: malgrado tutto quel male, infatti, gli italiani salutarono entusiasticamente gli anglo-americani come dei liberatori (anche se oggi molti vorrebbero dimenticarlo), mentre in Iraq è evidente che gli “yankees” sono considerati generalmente in modo quantomeno ostile, al punto che le truppe americane contano molte più perdite nel dopo guerra rispetto a quelle subite in combattimento.
E ciò non trascurando il fatto che – malgrado le recenti polemiche sul tema – la durezza del regime di Mussolini non possa nemmeno lontanamente essere paragonata alla spietatezza di quello di Saddam. La domanda quindi sorge spontanea: perché gli iracheni non vedono gli americani, e più in generale gli occidentali, come “liberatori”? Certo non per amore di Saddam, come del resto appare chiaro dal dopoguerra. Qualcuno sostiene che sia perché sono evidenti gli “sporchi” interessi americani; l’argomento non regge almeno per due motivi: anzitutto perché normalmente il popolo iracheno non legge gli “illuminati” giornali europei e neanche le riviste di geopolitica, e in secondo luogo perché anche in Italia e Francia era evidente che gli americani intervenivano per degli interessi nazionali precisi e non solo per altruismo e generosità. Allora perché questa differenza?
Credo che il problema sia anzitutto culturale: per accogliere qualcuno come “liberatore” bisogna avere, se non l’esperienza, almeno il concetto di libertà. E gli iracheni, come tutti i popoli islamici, il concetto di libertà non ce l’hanno, semplicemente perché l’islam non prevede la libertà. Nel Corano non si parla mai di libertà; oggi i musulmani per sostenere l’esistenza della libertà di coscienza citano la sura 2, 256 dove si afferma “Non vi sia costrizione nella Fede”.
Ma è tutt’altra cosa rispetto al cristianesimo. In realtà, soltanto nel giudaismo e nel cristianesimo esiste l’esperienza della libertà. Libertà del popolo d’Israele dalla schiavitù(vedi Esodo), libertà di ogni persona dal peccato, dalla corruzione, dalla legge con le sue osservanze materiali, dagli “elementi del mondo” (vedi in particolare le lettere di san Paolo ai Romani e ai Corinti). Il cristianesimo è l’esaltazione della libertà, grazie all’offerta di Cristo che ci redime con la Croce, una libertà che diventa piena nel seguire Gesù; e la libertà dell’uomo può cambiare il corso della storia: basti pensare a come ha cambiato la storia quel “sì” detto da Maria alla volontà di Dio. Al contrario, nella stessa sura 2 del Corano ci sono i fondamenti della predestinazione per il bene e per il male: è Dio che decide ogni cosa, per l’uomo il destino è già segnato, la storia non dipende dall’uso della libertà che fa l’uomo, ma tutto è già scritto. Per il fedele esiste soltanto lo spazio per sottomettersi alla volontà di Dio. Ne discende che una società modellata da questa mentalità non può fare esperienza di libertà, né considerare alcuno come liberatore. È in fondo ciò che capita in Iraq: la caduta di Saddam non è “liberazione” da un dittatore, ma al massimo la fine di un regime sgradito magari da sostituire con un altro più fedele ai dettami dell’islam, e per questo gli occidentali restano “nemici”, o quantomeno intrusi.
Questo non significa che non ci possa essere un’evoluzione. Lo dimostra l’esistenza nell’islam di una corrente innovatrice, che però al momento è limitata a un’elite intellettuale che cerca di fare i conti con la modernità. Ed è comunque l’incontro-scontro con l’Occidente che provoca una domanda anche tra i musulmani.
Un cammino dell’Iraq verso la libertà è dunque necessariamente lungo e passa inevitabilmente dal contatto con l’Occidente. Ma solo un Occidente consapevole delle sue radici può aiutare il popolo iracheno. A suo modo l’ha capito il presidente americano George W. Bush, che agevola l’ingresso in Iraq di missionari cristiani; non l’ha capito invece l’Europa dove si rafforza la tendenza a rinnegare le proprie radici cristiane e a pensare che la libertà sia figlia del “secolo dei Lumi”, addirittura in opposizione all’oscurantismo cattolico.
La questione non riguarda solo il rapporto con l’islam: se diamo uno sguardo al mondo, ci accorgeremo che al di fuori dell’esperienza cristiana non esiste la libertà.
Un esempio evidente? L’India. È conosciuta come la più grande democrazia del mondo, e non c’è dubbio che il popolo indiano sia chiamato a votare regolarmente e all’interno di un sistema multipartitico.
Ma la libertà èun’altra cosa, tanto è vero che l’intera società indiana, modellata sulla tradizione indù, è tragicamente schiava del sistema delle caste, l’unico vero fattore che determina i rapporti sociali. Ecco: un Occidente incapace di dare ragione dei suoi valori può al massimo imporre un sistema politico, ma impedirà alle persone di fare esperienza della libertà.
RICORDA
“Modellata su quella di Dio, la libertà dell’uomo non solo non è negata dalla sua obbedienza alla legge divina, ma soltanto mediante questa obbedienza essa permane nella verità ed è conforme alla dignità dell’uomo”.
(Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, n.42)
IL TIMONE N. 28 – ANNO V – Novembre/Dicembre 2003 – pag. 16 – 17