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11.12.2024

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Storia. «Ave Maria piena di grazia»: un tesoro nascosto
9 Gennaio 2015

Storia. «Ave Maria piena di grazia»: un tesoro nascosto

«Ave Maria, piena di grazia»: un tesoro nascosto

Le primissime parole dell’Ave Maria, nel testo originale greco del Vangelo, contengono una straordinaria ricchezza di significato.
Una verità che le traduzioni in lingua moderna non riescono a cogliere perfettamente. Eppure, quello è l’attimo decisivo per l’umanità

«Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te». Chi devotamente recita le prime parole della più nota e diffusa preghiera mariana forse non immagina quale complessità linguistica presenti, nel testo originale greco − «Chaîre, kecharitōménÄ“» − il passo evangelico a cui esse si rifanno (Lc 1,28), e quante importanti sfumature si perdano nelle
traduzioni in italiano (e latino). Proponiamo qui una riflessione linguistica sul passo.
Per avere una prima idea delle difficoltà, basterà mettere a confronto le ultime traduzioni italiane dotate di una certa autorevolezza: la versione CEI 2008, la CEI 1974, la versione interconfessionale in lingua corrente (TILC) del 1985, e infine la versione latina (IV secolo) di Gerolamo (Vulgata).
CEI 2008: «Entrando da lei, disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te”».
CEI 1974: «Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”».
TILC: «L’angelo entrò in casa e le disse: “Ti saluto, Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia”».
Vulgata: «Et ingressus angelus ad eam dixit: “Ave gratia plena, Dominus tecum”».
«Chaîre»: solo un semplice saluto? Si osservi la resa della prima parola dell’Angelo.
Il testo originale greco è «Chaîre», che significa propriamente «rallégrati, gioisci», ma è usato fin dai tempi di Omero come formula di saluto. In molte lingue il saluto si fa con formule di augurio (si pensi all’italiano «buon giorno» e agli equivalenti europei), che però nell’uso sistematico e meccanico perdono gran parte della loro carica affettiva. In termini tecnici, si desemantizzano: il parlante, cioè, fatica a percepirne il valore primitivo. Si tratta quindi di capire quanto conservasse del valore originario questo Chaîre, e se a Maria risuonasse come un semplice saluto o come un’esortazione a rallegrarsi. È una domanda che si fecero già vari padri della Chiesa che hanno commentato questo passo con esiti non univoci, e anche il cambiamento operato dall’ultima versione CEI è significativo.


La lettura di Benedetto XVI

Una chiave di lettura importante ce la offre Benedetto XVI, che così ha commentato il passaggio di Luca nel corso di una visita alla parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice nel dicembre 2005: «La prima parola del Nuovo Testamento è un invito alla gioia: “gioisci, rallegrati!”. Il Nuovo Testamento è veramente “Vangelo”, la “Buona Notizia” che ci porta gioia. Dio non è lontano da noi, sconosciuto, enigmatico, forse pericoloso. Dio è vicino a noi, così vicino che si fa bambino, e noi possiamo dare del “tu” a questo Dio».
Collocando il passaggio di Luca nel quadro della storia della Redenzione, il Papa valorizza il contenuto affettivo di Chaîre: l’Annunciazione è il vero inizio del Vangelo e la prima parola è una parola di gioia.

Maria e la grazia

Questa lettura non sminuisce la difficoltà della traduzione, perché spiegazione e traduzione sono due momenti diversi, e la traduzione obbliga inevitabilmente a scelte: difficilmente due parole hanno lo stesso identico significato in due lingue diverse (e soprattutto in culture diverse): la latitudine semantica è diversa e una parola può suggerire nella lingua di partenza
richiami che la lingua d’arrivo non può riprodurre. Il fatto che chaîre si ritrovi in contesti che non hanno nessun contenuto gioioso (p. es. Mt 26,49, dove c’è il saluto di Giuda a Gesù nel momento della cattura: «Chaîre rabbí», cioè «salve maestro») farebbe preferire una resa più neutra con «Salve» o «Ti saluto ». La traduzione con «rallégrati» è coerente col carattere gioioso del contesto, ma non può essere ritenuta una resa fedele della parola.
Che di un saluto si tratti, è detto esplicitamente dall’evangelista nel versetto successivo (Maria «si domandava che senso avesse un saluto come questo»). Anche nelle antiche rese latine prevale l’idea del saluto, come mostra la resa di tutte con Ave, usuale formula di saluto. Possiamo dire che «salve» (o «ti saluto») è una traduzione per difetto, perché non contiene l’aspetto augurale, mentre «rallégrati » è una traduzione per eccesso.
Se il dialogo fra Maria e l’Angelo fosse stato riportato in una lingua diversa dal greco, non ci porremmo queste domande, perché nelle lingue semitiche usate nella Palestina del tempo la formula di saluto è «shālôm» («pace»), e per dire «rallégrati» si userebbe un verbo diverso. Ma l’uso del greco permette a Luca un ulteriore gioco etimologico:
«chaîre» evoca il termine corradicale (cioè che ha la stessa radice) «cháris», vale a dire «grazia», e l’idea della grazia è fortemente presente nel contesto, ed è richiamata anche nella parola immediatamente successiva, «kecharitōménÄ“», anch’essa collegata a «cháris», un participio perfetto da kharitóō, cioè «gratificare»: la forma verbale esprime uno stato conseguente a un’azione: vi è insita l’idea sia dell’azione gratificante del Signore, sia della situazione-stato di grazia da cui Maria è ora pervasa.
Anche qui la traduzione non può rendere pienamente tutte le sfumature: Il gratia plena della Vulgata, e le versioni italiane che ne dipendono, danno rilievo allo stato, ma lasciano sullo sfondo l’azione. Altre antiche versioni latine avevano tentato di tradurre con gratificata o benedicta, valorizzando l’azione più che lo stato: anche la TILC, che cerca di risolvere la difficoltà con una perifrasi, dà rilievo più all’azione che allo stato («egli ti ha colmata di grazia»).
La novità del saluto esige scelte lessicali speciali.
Luca usa un verbo molto raro, che ha scarsissima circolazione nel greco dell’epoca: nel Nuovo Testamento lo si ritrova solo in un passaggio della Lettera agli Efesini (1,6), sempre in un contesto che richiama cháris: «a lode dello splendore della sua grazia, della quale ci ha gratificati nel Diletto». Le parole dell’Angelo non sono né semplici né tranquillizzanti: la tradizione successiva ha talora edulcorato la durezza di questo attacco.
Le apparizioni degli angeli inducono paura, tanto che spesso essi stessi prevengono lo spavento dell’uomo presentandosi con parole quali «non temere» (p. es. Lc 1,13 o 2,9), cosa che qui non avviene.

Un momento decisivo della storia

Il saluto dell’Angelo produce in Maria uno sconvolgimento totale: la sua persona ne è come trapassata (Luca usa un verbo composto con dia, cioè «attraverso») e Maria deve fare appello a tutta se stessa per riflettere (espresso nuovamente con un verbo composto con dia-: «dielogeîto»): nelle versioni correnti della traduzione (Maria «si domandava che senso avesse un saluto come questo») si perde l’efficacia dell’originale, che vuol quasi fotografare un fitto dialogo di Maria tra sé e sé per capire il senso di queste parole misteriose dell’Angelo. Un dialogo forse durato un attimo, ma un attimo decisivo per l’umanità, perché dalla risposta di Maria all’Angelo dipendeva la Redenzione dell’umanità. E Luca rende più intensa la descrizione con l’uso di un tempo verbale (l’imperfetto), che rileva il protrarsi di questa riflessione.
L’Angelo deve ripetere di nuovo il saluto per rassicurarla e spiegare ciò che era implicito, ma oscuro nelle sue precedenti parole: «Non temere, Maria! Tu hai trovato grazia presso Dio». «Non temere», cioè la formula con cui gli Angeli normalmente si presentano per rendere meno impressionante il contatto e che qui mancava, e poi «Tu hai trovato grazia presso Dio», che è dunque l’esatta parafrasi in termini più comprensibili del verbo usato in precedenza, il tutto intervallato dal suo nome, «Maria», che introduce qui un moto di grande tenerezza. All’approccio brusco subentra la dolcezza e l’incoraggiamento: come se la prendesse per mano e le spiegasse bene il significato delle sue parole rassicurandola.
Come scrive un grande Padre della Chiesa, Origene, in una Omelia su San Luca, «Un’espressione come “ave, investita dalla grazia” non si trova altrove: ma non è neppure detta ad alcun altro uomo: solo per lei era riservato un saluto del genere». â–

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«Hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un figlio; hai udito che questo avverrà non per
opera di un uomo, ma per opera dello Spirito santo. L’angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l’ha inviato. Aspettiamo, o Signora, una parola di compassione anche noi, noi oppressi miseramente da una sentenza di dannazione. Ecco che ti viene offerto il prezzo della nostra salvezza: se tu acconsenti, saremo subito liberati. Noi tutti fummo creati nel Verbo eterno di Dio, ma ora siamo soggetti alla morte: per la tua breve risposta dobbiamo essere rinnovati e richiamati in vita. […]. Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano».
(San Bernardo, Omelia 4, 8-9).

Per saperne di più…
Moreno Morani, Ave gratia plena, «Zetesis», 33 (2013), 2, pp. 29-40.
Benedetto XVI, Visita pastorale alla parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice, www.vatican

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