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14.12.2024

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Studiare è un privilegio di pochi
31 Gennaio 2014

Studiare è un privilegio di pochi

 

 

Vanno a scuola quasi tutti,ma quasi nessuno “studia” davvero. Considerazioni controcorrente per insegnanti e alunni: leggere e studiare ci migliora e ci dovrebbe aiutare a diventare santi ed eroi.

 

 

La fine imminente dell’anno scolastico porta con sé il consueto affanno: compiti in classe, insufficienze in pagella, un vago senso di ansia che attanaglia studenti e famiglie. Ma, nonostante il vortice di libri, appunti e lezioni private, studiare è e resta un privilegio di pochi: nel senso che, come sempre, pochi studenti studiano davvero. Moltissimi barano con se stessi. È, questa, una constatazione necessaria se si vuole parlare davvero di scuola; senza dimenticare i genitori, i quali, proprio negli ultimi giorni del quadrimestre e di fronte a un’eventuale bocciatura del figlio, si rendono·protagonisti di azioni inconsulte. Gli alunni che. Frequentano le aule nel XXI secolo leggono pochissimo, e solo se obbligati. Eppure gli editori del settore rovesciano ogni volta tonnellate di libri di testo, aggiornati, pronti a sedurre lo svogliato studente e destinati all’effetto contrario: la noia.

Perché studiare?
Domanda che un ragazzo, un genitore, un insegnante dovrebbe porsi.
L’oggetto dello studio è volgarmente detto “materia” ma se appena lo chiamiamo “disciplina”, sentiamo già un accento diverso: non sono gli alunni che studiano una materia ma è una disciplina che disciplina gli alunni; e la disciplina non è la “condotta”.
Lo studio avviene con un corpo a corpo. Disciplina in latino è “cosa che si impara”. Essa si fa apprendere dagli allievi che abbiano attenzione, per tramite dell’insegnante: insegnare viene dal latino “indicare, segnare col dito”.
Tanto chiaro che non sembra neanche si parli di scuola. Ciò che un adolescente è tenuto a studiare è un insieme organico di “cose” (non nozioni né concetti) le quali a loro volta insegnano come si cerca e come si trova.
Capovolgendo il detto del Vangelo, se un alunno/a va male a scuola è perché “se non cerca, non trova”. Come illustra il sonetto intitolato “Dalla Torre”, dalle “Poesie amorose e morali” di Francisco de Quevedo (1580-1645):
Ritiratomi in pace tra i deserti
in compagnia di pochi libri dotti,
vivo in conversazione coi defunti
e sto a sentire coi miei occhi i morti.
Se non sempre li ho compresi, essi aperti
incitano o correggono i miei assunti
ed in muti armoniosi contrappunti
parlano al sogno della vita, desti.
Le anime grandi, escluse dalla vita
le libera dal tempo, vendicandole,
o gran Don Josef la dotta stampa.
Nel corso irrevocabile delle ore,
qualcuna di esse segni a suo favore
che leggere e studiare ci migliora.
Il componimento meriterebbe una lunga esegesi, tanto è saturo di significato. Basti, qui, sottolineare l’ultimo verso: “leggere e studiare ci migliora”.
Davvero?
L’aria di famiglia
A studiare s’impara in casa. Oggetti di studio sono le cose di tutti i giorni: un libro, quaderni, un luogo, la cameretta, la quiete, il disturbo dello stereo acceso, i rumori di fondo domestici, le interferenze dei fratelli minori. Un tempo, genitori semianalfabeti generavano figli volonterosi, se non altro per desiderio di promozione sociale.
Padri operai o contadini, madri lavoratrici non-qualificate diedero vita a italiani che non distrussero le aule, che ricordarono quanto appreso sui banchi, che ne fecero per quanto possibile tesoro.
Oggi, “piccoli vandali scolarizzati” rampollano da famiglie di laureati, diplomati, intellettuali, emancipati. Triste fenomeno a proposito del quale occorrerebbe studiare l’incidere della scomparsa delle mamme “casalinghe”.
Occorre una rivoluzione silenziosa; la “rivoluzìone del pomeriggio”, regno delle madri· e delle merende, momento indimenticato per tutta la vita: è allora che si gioca la crescita felice dei figli, la tenuta dei nuclei famigliari. Basta diminuire un poco gli impegni pressanti (i corsi di ogni genere con scadenze esasperate, lo sport agonistico) e tagliare la vita quotidiana su misura dei propri figli: teach us to sit still, “insegnaci a stare .fermi”, implorava in una poesia T.S.Eliot.
L’altro momento è il dopocena, quando vale oro l’esempio dei padri che rincasano prima possibile perché non è vero che conta la qualità: è decisiva la quantità di tempo trascorso coi figli. La presenza dei genitori, anche in altre faccende affaccendati ma accanto ai figli che fanno i compiti, è un toccasana.
Che cosa non può fare la scuola?
Insegnare la voglia di studiare. Questo è certo. Il professore/la professoressa possono però indicare, al limite, gli obiettivi, le mete, i fini, gli scopi, i traguardi in vista dei quali si studia: e dopo , averli mostrati, mettersi in cammino verso di essi. Ma chi non vuole incamminarsi, come farà?
Risultati eloquenti di tale amletica questione sortiscono quando si vuole insegnare, per esempio, “Educazione Civica”: col corollario delle campagne contro il fumo, l’educazione alla salute, o al rispetto dell’ambiente. E se i ragazzi fumassero, si intossicassero o devastassero la natura anche perché annoiati dal tono moralistico di predica laicista che caratterizza tante pur lodevoli iniziative tese a suscitare una “coscienza civile”? Anche i laboratori per favorire la lettura o la diffusione del libro ottengono sovente risultati perversi: quando non disincentivano il giovane lettore, gli sciagurati attivisti della narrativa a tutti i costi possono alterare il gusto, come pare a giudicare dall’elenco dei libri offerti,per esempio, da La Repubblica. Oggi il frangente epocale delle emergenze, dei profughi, delle scelte, richiede una carità del tutto assente dai libri di Herrnann Hesse o di Garcia Marquez o di Umberto Eco.
Perché costringere a studiare quanti non vogliono assolutamente studiare? Sarebbe un buon argomento per un convegno nazionale per docenti.
Dal quale potrebbe apparire evidente che l’insegnante è un artigiano a servizio del futuro: prepara uomini qualunque a diventare santi o eroi o persone oneste; dà agli alunni anche ciò che non possiede. Il docente, come dice Noventa in una sua bella quartina in dialetto veneto:

“…prepara una fiama,
pian pianin…e el va via pian pianin.
Sue no’ xè che le prime falive,
e po’ i santi e l’eroe vignarà”.

Accende, cioè, un fuoco pian piano… e se ne va in silenzio. Solo le prime scintille sono sue: poi i santi e gli eroi verranno da sé.

 

 

 

RICORDA

 

” […] la Chiesa ricorda a tutti che la cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale”.
(Concilio Vaticano Il, Costituzione Gaudium et Spes, n. 59).

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Alberto Faccini, L’attimo che resta, Ares, Milano 1998.
G. Camiciotti – E. Riboldi, II sapore del sapere, Maurizio Minchella Editore, Milano 1998.
Lucio Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano 1999.
Giacomo Noventa, Versi e poesie, Marsilio, Padova 1988.

 

 

TIMONE N. 19 – ANNO IV – Maggio/Giugno 2002 – pag. 46 – 47

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