Perché ai sacerdoti non è permesso “prendere moglie”?
Perché, come Gesù, sono “già sposati”. Vediamo perchè
«Il carisma della vocazione sacerdotale, rivolta al culto divino e al servizio religioso e pastorale del popolo di Dio, è distinto dal carisma che induce alla scelta del celibato come stato di vita consacrata» (Sacerdotalis celibatus 15).
La connessione tra l’uno e l’altro carisma – stabilita dalla legge canonica del celibato dei sacri ministri – non è subito evidente. La questione merita un’analisi più accurata.
Certo, la Chiesa ha istituito questo collegamento tra sacerdozio ministeriale e celibato con una decisione sua; una decisione di indole “storica”, libera, positiva, che però è legittima e motivata.
Decisione legittima e motivata
È una decisione legittima, perché è posta nell’ambito della sua potestà di regolare i fatti ecclesiali, e non lede i diritti di alcuno. Non bisogna dimenticare che l’essere costituiti in un ministero non è configurabile in un diritto per nessuno: ogni ministero è un compito liberamente assegnato dall’autorità competente secondo criteri che nessuno può sindacare; e non per favorire le inclinazioni delle singole persone, bensì in vista del miglior bene della comunità.
È una decisione motivata, se non altro dalla convenienza di assicurare mediante un dispositivo canonico che la “preferenza di Cristo” per lo stato celibatario continui ad avere una rispondenza e una vitalità nella storia e nella coscienza ecclesiale.
Guardare al Signore Gesù
Queste considerazioni sono giuste, ma restano un po’ in superficie e non ci fanno cogliere tutta la verità delle cose, l’intima coerenza del disegno di Dio, la consonanza con questo disegno dell’ordinamento ecclesiale. Per approfondire la questione, dobbiamo rifarci al Signore Gesù, sacerdote unico e pienamente sufficiente della Nuova Alleanza: ogni autentica comprensione del sacerdozio ministeriale e dei suoi problemi deve partire da lui.
Celibato di Cristo
Una prima domanda: perché Gesù è rimasto celibe? Perché non si è mai sposato, pur essendo arrivato all’età matura ed essendo vissuto in una società che non aveva la consuetudine celibataria tra i valori riconosciuti?
Non è possibile considerare questo fatto come del tutto occasionale e privo di significazione, perché nella vita di Cristo niente è fortuito e insignificante. Egli – con tutti gli atti e gli avvenimenti della sua esistenza umana – è interamente un “segno”: è doveroso leggere fino in fondo questo “segno” che è Cristo.
Il celibato di Cristo, come quello del profeta Geremia, ha senza dubbio un’indole manifestativa. Mentre però in Geremia il celibato è simbolo della desolazione d’Israele (cf Ger 16,1ss.), in Gesù è la prova che l’umanità non è rimasta preda dell’abbandono e della solitudine, ma al contrario è chiamata a entrare in una comunione sponsale col suo Signore.
Cristo Sposo
Gesù è apparentemente celibe, in realtà è in senso assoluto lo “Sposo”: non si sposa perché è già sposato. È bene qui richiamare la grande insistenza con la quale il Nuovo Testamento ci presenta il tema del “Cristo Sposo”.
La catechesi sinottica ce lo offre nelle sue parabole: quella del banchetto nuziale del figlio del re (cf Mt 22,2), quella delle damigelle d’onore del matrimonio (cf Mt 25,1), quella del padrone che torna dallo sposalizio nel cuore della notte (cf Lc 12,38). Ed è da ricordare anche il “Loghion”, riferito da tutti e tre i Sinottici in cui Gesù è presentato come lo «Sposo» e i suoi discepoli come gli «invitati alle nozze» (cf Mt 9,15; Mc 19; Lc 5,34).
Il quarto vangelo attribuisce a Giovanni il Battezzatore l’identificazione di Gesù come lo sposo che «possiede la sposa» (cf Gv 3,29). L’Apocalisse raffigura l’instaurazione del Regno di Dio nelle «nozze dell’Agnello», alle quali la sposa è stata preparata: «Le hanno dato una veste di lino puro splendente» (cf Ap 19,7-8). E anche qui si parla, come nei Sinottici, degli «invitati»: «Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9).
San Paolo, usando l’immagine sponsale, stabilisce l’equivalenza tra la «sposa» e la comunità cristiana (cf 2 Cor 11,2), e alla luce di questa figura approfondisce l’intelligenza del vincolo sostanziale che unisce Cristo alla Chiesa (cf Ef 5,25-32).
Come si vede, la Chiesa delle origini riteneva fondamentale l’argomento della “sponsalità” di Cristo per una conoscenza compiuta del mistero della salvezza, tanto che noi lo ritroviamo nei più diversi filoni catechetici della comunità primitiva.
Il senso della sponsalità di Cristo
Una seconda domanda: che cosa comporta per Cristo il suo essere sposo nei confronti della Chiesa. O, che è lo stesso, come si attua in concreto la sua sponsalità? San Paolo, nella lettera agli Efesini può guidarci e aiutarci ad arrivare a una risposta adeguata.
Sposo vuol dire che Cristo è «capo» della Chiesa, la quale perciò è il «corpo» ed è sottomessa a lui (cf Ef 5,23.24). Vuol dire che l’ha presa dalla corruzione del mondo, le ha dato il suo nome, e così l’ha salvata: egli è «il salvatore del corpo» (cf Ef 5,23). Vuol dire che l’ha amata e la ama, al punto da dare se stesso per lei (cf Ef 5,25). Vuol dire che la rigenera e la purifica continuamente per mezzo dei sacramenti e della parola di Dio (cf Ef 5,26). Vuol dire che attende senza stanchezza all’opera della sua santificazione, in modo che sia senza macchia e senza ruga, ma santa e immacolata (cf Ef 5,27). Vuol dire che «la nutre e la cura» (cf Ef 5,29), come fa il pastore con il suo gregge.
Come si vede, l’indole sponsale di Cristo evoca tutte le funzioni di “guida”, di “maestro”, di “santificatore”, di “pastore”, alle quali il Risorto – presentandosi come il “mandato” dal Padre e l’apostolo per eccellenza – associa gli apostoli, cioè coloro che sono “mandati” da lui: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21).
Sono i compiti che, secondo la testimonianza del vangelo di Matteo, Gesù lascia ai suoi «mandati» come l’estrema consegna: «Andate… fate discepoli… battezzate… insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato » (cf Mt 28,19.20). Sono gli stessi compiti che sono affidati ai presbiteri nel rito dell’ordinazione.
Il sacerdote «sacramento» del Cristo Sposo
Il sacerdozio ministeriale, che rende presente e percepibile in mezzo al popolo di Dio il Signore Gesù nelle sue funzioni regali, magisteriali e profetiche, è dunque sostanzialmente una partecipazione – mediante il sacramento dell’ordine che ci immette nella trama delle missioni che si diparte dal Risorto – alla prerogativa nuziale di Cristo.
Il sacerdote è quindi una specie di sacramento del Cristo Sposo nell’atto della sua multiforme donazione alla Chiesa, ed è chiamato a condividere il medesimo amore sponsale – o, che è lo stesso, la medesima carità pastorale – che colma il cuore del Signore Gesù e dal cuore di Gesù si riverbera sulla «nazione santa».
Per la sua diretta comunione con la natura sponsale del Redentore, anche il sacerdote ministeriale, come lui, con lui e in lui, possiede già quel “mistero sponsale”, di cui il matrimonio tra l’uomo e la donna è solo figura; per ripetere e cogliere in tutte le sue implicazioni la parola giovannea, anche lui «possiede la sposa» (cf Gv 3,29).
Sotto questo profilo, il sacerdote che volesse contrarre matrimonio darebbe luogo a un non-senso teologico: aspirerebbe a possedere “in figura” ciò che è già suo nella verità.
Il celibato ecclesiastico
Questa conclusione trova conferma nella disciplina canonica che, dopo qualche incertezza, alla fine è prevalsa tanto nella Chiesa orientale quanto in quella occidentale: tutte le Chiese, che hanno conservato un’effettiva dimensione sacramentale, convengono nel non riconoscere la facoltà di contrarre matrimonio ai sacri ministri (diaconi, presbiteri, vescovi).
La norma universale manifesta prima di tutto la volontà di assicurare con una disposizione giuridica il permanere nella cristianità della “preferenza di Cristo”; più profondamente essa contiene un principio di “logica sacramentale” almeno confusamente intuito: e cioè che, mentre è ammissibile un passaggio dall’essere solo “segno” all’essere “realtà”, non ha plausibilità l’ipotesi di un passaggio dall’essere già “realtà” all’essere “segno”.
Questo principio ci aiuta a comprendere la prassi, vigente per qualche situazione della Chiesa, di chiamare ai sacri ministeri anche dei coniugati. Nella Chiesa orientale tale possibilità è normalmente assicurata per il diaconato e per il presbiterato (non però per l’episcopato); nella Chiesa latina è data per il diaconato (per il presbiterato solo in casi del tutto eccezionali).
È però importante che si colga, indipendentemente dalle pratiche applicazioni, la radicale diversità e la non confrontabilità dei due fenomeni: quello dello sposo che riceve un ordine sacro e quello del sacerdote che si sposa.
Autorizzando l’ordinazione sacerdotale dei coniugati, la Chiesa orientale è mossa dal desiderio di venire incontro alle necessità pastorali delle comunità cristiane (e non è prevedibile – né auspicabile – che tale disciplina si estenda all’Occidente). Invece, un’eventuale autorizzazione al matrimonio dei preti (contro la prassi di tutte le vere Chiese) sarebbe motivato dal desiderio di venire incontro alle richieste delle singole persone, alle quali si può provvedere anche in altro modo (ad esempio, concedendo il ritorno alla condizione laicale): nessuna Chiesa, che sia veramente e pienamente tale, né in Oriente né in Occidente, prende in considerazione ipotesi come questa.
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