La teologia morale ha il compito di fornire luci all’uomo circa la conoscenza del bene e del male nei singoli comportamenti, attingendo dalla Parola di Dio. Tra i comportamenti umani vi sono anche quelli di natura socio-economica; ecco quindi che all’interno della teologia morale si sviluppa una branca rivolta alla sfera sociale ed economica, chiamata Dottrina Sociale della Chiesa. I suoi ambiti di competenza sono molti e complessi: dai diritti della persona umana al concetto di bene comune, dal principio di solidarietà ai valori fondamentali della vita sociale, dalla famiglia al lavoro, dalla vita economica alla comunità politica, dallo Stato alle strutture sociali in esso contenute, dalle imprese alla cooperazione internazionale, dal valore della pace a quello della giustizia.
È evidente che in questa sede non è possibile nemmeno sintetizzare la vastità di queste problematiche, che coinvolgono tutti i tipi di soggetti e di aggregazioni umane. Perciò suggeriamo la lettura, oltre dei relativi articoli offerti dal Timone, anche delle principali encicliche sull’argomento, come la Rerum Novarum di Leone XIII, o la Pacem in Terris di Giovanni XXIII, o la Populorum Progressio di Paolo VI, o la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, e tante altre che si trovano comunque compendiate in un prezioso manuale curato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa.
Ci preme però indicare il concetto centrale attorno a cui ruota la visione socio-economica della Chiesa, e cioè la destinazione universale dei beni: i beni sono destinati a servizio dell’uomo e di tutti gli uomini. L’uomo ha diritto a usare delle cose, ma nella misura necessaria a raggiungere il proprio fine, e per costruire insieme al suo prossimo la “civiltà dell’amore”. Vi è dunque una signoria dell’uomo sul Creato, che però deriva dalla più alta signoria di Dio. Se l’uomo riconosce quest’ultima, ha diritto a dominare la natura, ha anche diritto a possedere le cose, ad esercitare proprietà su di esse. Il Vangelo gli chiede però di vivere il possesso dei beni con spirito di donazione e condivisione. Se vive dentro questo spirito, nemmeno la ricchezza è peccato. Tuttavia Lc 16,19ss e Mt 19,16ss mettono giustamente in guardia dai rischi della ricchezza; la ricchezza diventa peccato in tre casi: quando è perseguita come un fine, quando è conseguita con mezzi illeciti, e quando non è condivisa.
Nella storia del cristianesimo non sono mancate figure di industriali che hanno vissuto in santità (come Marcello Candia), sebbene le logiche del capitalismo si siano spesso dimostrate contrarie allo spirito evangelico. La Chiesa, oltre a respingere comunismo e socialismo, la cui pianificazione centralizzata dell’economia «perverte i legami sociali alla base», «ha pure rifiutato, nella pratica del capitalismo, l’individualismo e il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano», anche perché «la sola legge del mercato non può attuare la giustizia sociale» (CCC 2425), in quanto «esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato» (Centesimus Annus, 34).
A questi bisogni umani deve rispondere non solo la solidarietà dei cristiani, ma anche lo Stato: «Compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico» (CCC 2431). Nel muoversi, lo Stato deve tuttavia ispirarsi al principio di sussidiarietà. «In base a tale principio, tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto (“subsidium”) – quindi di sostegno, promozione, sviluppo – rispetto alle minori»; in tal modo i diversi corpi sociali (famiglia, gruppi, associazioni,…) «possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 186).
Anche la fiscalità dovrebbe attuare una maggiore giustizia contributiva (per esempio introducendo il quoziente familiare, affinché venga considerato finalmente il reddito pro- capite della famiglia), e dovrebbe assumere un volto più umano, mettendo al centro non le sanzioni, ma il coinvolgimento alla responsabilità, per esempio introducendo la possibilità della contribuzione volontaria aggiuntiva (non tutti desiderano evadere, c’è anche chi vuole aiutare generosamente), e permettendo al tempo stesso al contribuente di deciderne per quella parte la destinazione (scuola, ospedali, centri di ricerca…). Così le tasse non verrebbero percepite come una punizione, ma come un’opportunità.
I recenti disastri finanziari ci hanno resi più consapevoli che etica ed economia devono tornare a camminare insieme. Così come in molte altre professioni è d’obbligo essere formati nella deontologia professionale (medici, giornalisti,…), sarebbe opportuno che anche in tutti i corsi di laurea in Economia o Scienze Politiche vengano inseriti esami obbligatori di Etica economica e sociale.
IL TIMONE N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 61