Il film straordinariamente bello di Mel Gibson sulla Passione di Cristo, uscito all’inizio del mese nelle sale cinematografiche italiane, sta suscitando molte polemiche. E molte accuse.
Come rispondere alle più comuni?
Il film The Passion arriva nelle sale italiane preceduto da un successo travolgente: negli Stati Uniti il film ha sbriciolato tutti i record di pubblico. Una vicenda che ha dell’incredibile se si pensa che questa pellicola racconta la passione morte e resurrezione di Gesù. Vent’anni fa, nessuno avrebbe previsto che il Terzo millennio si sarebbe aperto con l’immagine di milioni di cittadini americani diligentemente in coda per andarsi a vedere la Via crucis narrata in Digitale Dolby Stereo. Nessuno avrebbe previsto la mobilitazione spontanea di cattolici e protestanti impegnati in una sorta di pellegrinaggio dell’anima al cinema più vicino. È una storia che sfugge alle logiche del mondo, e che non a caso suscita – accanto al gradimento del pubblico – gli attacchi velenosi di intellettuali e critici cinematografici, talora fra gli stessi cattolici. Ecco una sintesi delle principali accuse piovute sul film di Mel Gibson, accompagnate dalle obiezioni più immediate che il buon senso – prima ancora della fede – può suggerire.
The Passion non è nulla di straordinario: è soltanto un film.
Questo giudizio è profondamente sbagliato. The Passion è un atto di fede autentica reso attraverso gli strumenti tipici dell’arte cinematografica.
Come ha scritto Robert Royal, “The Passion sfiora la perfezione”. Questo film è il tentativo di immergere lo spettatore dentro alla passione di Cristo. Il linguaggio è quello dei grandi capolavori dell’arte: ad esempio, lo scherno e le risa oscene che circondano Gesù evocano i volti spaventosi di Hieronimus Bosch. Sembra di assistere a un’antica rappresentazione medioevale, non già simulazione teatrale, ma esperienza viva dell’avvenimento cristiano. Nessuna pellicola ci offre un Cristo così uomo, così di carne e ossa. La fedeltà ai Vangeli è assoluta. D’ora in poi, chi vorrà raccontare al cinema qualcosa di nuovo della vita di Cristo, dovrà fare i conti con la potenza espressiva di questo film.
È un’operazione commerciale, non ha nulla a che vedere con la fede.
Chi ha assistito a The Passion in una prospettiva di fede, si è accorto che questo film aiuta a pregare. Mel Gibson ci mette faccia a faccia con il costo enorme della nostra redenzione. È vero, abbiamo a disposizione la Via crucis, ma spesso è fatica ardua quella di immaginarsi le sofferenze di Cristo e il peso che su di esse hanno le nostre colpe. In un film come questo, invece, non occorre andare in cerca del coinvolgimento del cuore, ma sono le emozioni più autentiche che vanno incontro allo spettatore, e lo sorprendono attento a scoprire, forse per la prima volta, che cosa è stata la Passione.
Il film è girato in aramaico e latino, il pubblico non riesce a capire cosa dicano gli attori.
Anche se gli attori parlano in aramaico e latino, senza doppiaggio, è così forte il pathos narrativo che presto lo spettatore abbandona la lettura dei sottotitoli, e capisce l’essenziale. Quella che poteva apparire una scelta stravagante, si rivela alla fine l’idea più forte del film. Per la prima volta ascoltiamo Gesù parlare la sua lingua, i soldati romani esprimersi in un latino basso, Ponzio Pilato e sua moglie discorrere in un latino più forbito, il tutto all’insegna di un realismo frutto di un lavoro che fino ad oggi nessuno aveva saputo realizzare.
Mel Gibson è un tradizionalista, espressione di una destra religiosa americana vicina al fondamentalismo protestante.
In alcuni giudizi sul film traspare l’ostilità dei critici contro la persona del regista. Gibson è sposato da anni con la stessa moglie, ha sette figli, è cattolico, è antiabortista: ve n’è abbastanza per addensare su di lui l’odio dell’intellighentia liberal che occupa le redazioni dei giornali e delle tivù. Il suo tradizionalismo lo rende inviso anche a una parte della stampa cattolica, che ha paura di essere identificata con posizioni reazionarie. Si tratta di un atteggiamento irragionevole, che confonde l’opera con il suo autore. Davanti alla Cappella Sistina ci interroghiamo sulla moralità di Michelangelo, o sulla bellezza del suo Giudizio Universale? Per quale motivo Pier Paolo Pasolini, comunista e omosessuale militante, può fare – almeno secondo certa critica – un buon film su Gesù Cristo, e
il tradizionalista Gibson non potrebbe farne uno almeno altrettanto buono sulla Passione? Che The Passion sia espressione di una visione protestante, è affermazione smentita da almeno due fatti: la Madonna e l’Eucaristia sono costantemente al centro del film, e ne costituiscono la chiave interpretativa autentica. C’è molto più catechismo cattolico in queste due ore di cinema hollywoodiano che in certe dotte lezioni teologiche contemporanee.
È un film che non ammette il dubbio.
The Passion è un film scandaloso, perché afferma con convinzione la verità: chi lo ha girato crede in Gesù Figlio di Dio, nella sua morte e nella sua resurrezione. Questa adesione totale al Credo cristiano ha un effetto scioccante sullo spettatore post-moderno, così abituato a cullarsi nelle placide acque dello scetticismo eternamente indeciso. Perfino i credenti sono stati abituati a riletture della vita di Cristo in cui il regista non sa che pesci pigliare, in cui i miracoli forse sono accaduti ma forse erano solo guarigioni inspiegabili; in cui i Vangeli sono belli ma non vanno presi troppo sul serio; Gesù è un po’ risorto, ma anche un po’ non risorto; film, per intenderci, che non portano da nessuna parte. Gibson invece ci crede, e il suo film racconta il Vangelo così come si potrebbe descrivere lo sbarco sulla Luna o la scoperta dell’America. E questo, per molti nostri contemporanei, è davvero imperdonabile.
Nel film sono i sommi sacerdoti a trascinare Gesù davanti all’autorità romana; ed è Caifa a forzare la mano al Procuratore, affinché liberi Barabba e crocifigga il re dei giudei. Pilato è tratteggiato con ragionevole realismo. Un uomo dilacerato dal dubbio, convinto dell’innocenza dell’imputato, ma che alla fine cede alla folla urlante. Antisemitismo? Basta vedere il film per accorgersi di quanto l’accusa sia ridicola: Gesù muore sotto il peso del peccato del mondo, ed è la stessa mano del regista a infiggere il chiodo nel corpo del Cristo, come a dire: sul Calvario c’ero anche io. Nel complesso, il film presenta gli ebrei allo stesso modo di ogni altro popolo: un misto di vizi e di virtù. Ma Gibson non poteva certo tacere che solo i Sommi sacerdoti avevano interesse alla eliminazione fisica di Gesù. Qualcuno può immaginarsi lo scettico Ponzio Pilato che si dà da fare per arrestare, processare e condannare un uomo solo perché si proclama Figlio di Dio?
Allora sono i Vangeli a non essere attendibili quando accusano i giudei.
Purtroppo questa paradossale conclusione è alimentata da alcune pagine della teologia contemporanea, che definiscono la posizione degli evangelisti “chiaramente polemica contro gli ebrei”, condizionata dalla “preoccupazione di tenersi buoni i dominatori romani”. Detto in parole povere, i Vangeli avrebbero mentito. Ma se Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno scritto il falso per meschine ragioni di opportunità, che cosa renderebbe credibile il resto dei Vangeli? È evidente che, con simili premesse, l’intero deposito della fede subirebbe un colpo mortale.
La violenza che colpisce il Cristo è esagerata e gratuita.
La crocifissione non è il solito acquarello idealizzato, ma una minuziosa descrizione del peggior supplizio di tutti i tempi. Il Cristo umiliato e coperto di piaghe, spogliato della sua solenne regalità, il volto sfigurato e gonfio di percosse si imprime nel cuore del pubblico: impossibile dimenticarlo. Ma, d’altra parte, questa è stata la sofferenza di Gesù sul Calvario. Mel Gibson ci costringe a vedere un Dio fatto carne, una carne dilacerata e sanguinante. È un realismo, una crudezza che ritroviamo in certe pellicole che hanno efficacemente descritto la Shoa; e in quel caso nessuno gridò allo scandalo.
Gibson vuole farci credere che Gesù è una sorta di “campione mondiale del dolore”.
Ogni uomo sofferente può riconoscersi nel Cristo della Passione, ma nessuna esperienza storica, per quanto terribile, può raggiungere il vertice dell’ingiustizia e del dolore. Né la Shoa, né la mattanza comunista, né qualsiasi strage orribile eguaglia così perfettamente l’innocenza assoluta di Gesù, che è l’unico uomo (insieme a Maria) assolutamente, ontologicamente innocente. Per questo il prezzo della nostra salvezza è enorme, e fino alla fine dei tempi non potrà esservi dolore, ingiustizia, malvagità più grandi di quelle condensate nelle ore del Calvario, raccontate da Gibson. È chiaro che chi non accetta la divinità di Cristo, o non si mette almeno in atteggiamento di apertura a questa possibilità, non può cogliere il cuore di questa verità. Ma non è colpa di Mel Gibson.
La Resurrezione è descritta da Gibson come un’esperienza privata.
Chi contesta questa ultima sequenza del film, dimentica che il vero protagonista della salvezza è Dio. Gesù risorge non perché c’è una comunità che crede in lui; o perché un presidio di fedelissimi lo incita a risorgere standosene fuori dal sepolcro. Gesù risorge perché è il Figlio di Dio. L’avvenimento accade non perché gli uomini lo attendono, ma nonostante non se lo aspettino, come dimostra l’incredulità degli apostoli, o il ragionevole pragmatismo delle pie donne che vanno al sepolcro portando oli e profumi destinati a un uomo morto. La resurrezione di The Passion é la descrizione più bella, efficace e credibile di un evento ineffabile come quello della Resurrezione, evento cui nessun uomo ha direttamente assistito. Molti hanno visto il Risorto, nessuno di loro ha visto l’atto del risorgere, nel quale vi è una intrinseca presenza di Dio che lo rende probabilmente non sopportabile a vista umana. La pietra rotolata, la luce del mattino che illumina il sepolcro, il lenzuolo che si affloscia, Gesù di Nazaret restituito alla sua bellezza di Figlio di Dio, che si alza.
È risorto. Impossibile restare indifferenti.
DA NON PERDERE
Andrea Tornielli, La Passione. Dai Vangeli al film di Mel Gibson.
«Ci vorrebbe una guida, qualcosa come un piccolo manuale per aiutare a capire il significato di quelle dodici ore a Gerusalemme e di queste due ore di proiezione che ce le sbattono in faccia in modo tanto provocatorio». Così Vittorio Messori inizia la sua prefazione al libro La Passione. Dai Vangeli al film di Mel Gibson scritto da Andrea Tornielli, vaticanista del «Giornale», raccontando com’è nata l’idea del volume.
L’autore ha confrontato ogni scena della «Passione di Cristo» con il testo evangelico e con le visioni di Anna Katharina Emmerick, la suora stimmatizzata a cui Gibson si è ispirato. Ne è nato un libro che, a partire dal film, ripercorre le ultime ore di Gesù e aiuta a scoprire tutti gli indizi di storicità disseminati nei Vangeli.
«Certo – osserva il biblista Gianfranco Ravasi nella postfazione al libro – il film segue prospettive più immediate, sollecita altre emozioni, provoca critiche, suggerisce riserve: lo stesso eccesso di violenza e di sofferenza contrasta con l’estrema sobrietà e asciuttezza della narrazione evangelica… Ha fatto bene, allora, Tornielli a riportare il lettore a quella fonte unica e insostituibile, mostrandone la preziosità e la consistenza.
Lungo l’itinerario che egli propone seguendo le varie tappe della Passione si riesce, allora, a comprendere – oltre ogni pur autentica commozione – il cuore del mistero cristiano». Il libro, edito dal «Giornale», è acquistabile nelle edicole a partire dal 6 aprile. Dalla settimana successiva sarà presente anche in libreria per le edizioni Piemme.
IL TIMONE – N. 32 – ANNO VI – Aprile 2004 – pag. 8 – 11