Dio è un Padre misericordioso, che ama, comprende e aiuta la nostra fragilità. Ma l’uomo non deve prendersi gioco della sua misericordia. Per non incorrere nella sua giustizia. Il vero timore di Dio è un grande dono dello Spirito. Da non confondersi con la paura
Succede un fatto strano ed è questo. Nell’italiano corrente quei due termini di “timore” e “paura”, che impieghiamo per descrivere una situazione in cui viviamo un’esperienza negativa di apprensione e disagio, si equivalgono a livello di significato tanto che possono essere considerati due sinonimi e, dunque, intercambiabili. Nel linguaggio religioso cristiano, invece, essi, nella applicazione e nell’approfondimento che ricevono, giungono fino ad avere un significato che può essere addirittura divergente, opposto. Tuttavia, solo in un caso e cioè quando essi vengono applicati a Dio. Cosicché, mentre avere paura di Dio può essere un atteggiamento che giunge a configurarsi, nei casi peggiori, addirittura come un peccato contro lo Spirito, averne il giusto timore è invece considerato uno dei più grandi doni dello Spirito stesso.
Cerchiamo subito di riassumere i concetti in poche parole chiarendone i contenuti di base: ciò avviene perché quel Dio che, dopo averci creati, ci ha trasformati in figli a immagine di Gesù, quel Dio che ci ha amati per primo e che è la fonte di ogni misericordia, non può gradire che la risposta nei suoi confronti siano il rifiuto e la paura. Tuttavia, poiché egli, oltre ad essere Amore è anche Verità, non può cancellare il fatto che a lui vada riconosciuto il posto che gli spetta e cioè che quell’uomo nei confronti del quale egli si è dimostrato Padre nutra nei suoi confronti i giusti sentimenti di obbedienza, di rispetto, di amore.
Il cristiano, dunque, è chiamato a sapersi muovere contemporaneamente tra due atteggiamenti interiori che sembrano l’uno opposto all’altro ma che in realtà sono solo apparentemente in contraddizione tra loro. Deve cioè sapersi liberare sempre più della paura di Dio per acquistare invece quel giusto timore di lui che gli permetterà di crescere nella vita spirituale fino a sbocciare nella pienezza di un rapporto autentico e profondo. Si tratta di un processo che in genere si svolge poco a poco nel corso della nostra esistenza, di una progressiva purificazione che ci fa prendere sempre più coscienza di chi è Dio e di chi siamo noi. Di quanto grande, abissale sia la distanza che ci separa da lui – Creatore a creature – e che può davvero incutere paura. Ma, al contempo, di come in modo commovente e mirabile egli l’abbia voluta colmare attraverso quel pontifex supremo – quel ponte, appunto, steso tra Cielo e terra, tra umano e divino – che è Gesù Cristo, l’uomo-Dio.
Ma ritorniamo all’inizio per penetrare meglio all’interno di quelle dinamiche a cui abbiamo accennato, cominciando dalla paura. Per secoli, quando si parlava di paura di Dio, nel nostro Occidente ci si riferiva soprattutto a quella ingenerata dal fatto che una condotta contraria alla fede e alla morale predisponesse a quelle “punizioni” – purgatorio e inferno – che attendevano colui che fosse morto in quello che veniva chiamato stato di peccato. Oppure a un altro genere di castighi che già in questa vita potevano raggiungere colui che non rispettava la Legge divina. Di quest’ultima mentalità è certamente intriso l’Antico Testamento nel quale spesso viene posto un collegamento diretto tra peccato e punizione. Di Dio si dice che «santo e terribile è il suo nome» e che proprio per questo occorre temere anche la sua vendetta cosicché «principio della saggezza è il timore del Signore» (Salmo 111,10).
Uno schema, tuttavia, che verrà messo fortemente in discussione già in uno dei libri proprio di questo Antico Testamento, quello di Giobbe, dove il protagonista – Giobbe appunto – raggiunto da mille disgrazie ma anche convinto della propria innocenza davanti a Dio, griderà a lui in tutti i modi possibili le proprie ragioni. Fino a quando Dio stesso gli verrà in soccorso facendogli intravedere quali profondità raggiunga il mistero che lo riguarda e aiutandolo così a capire come del “timor Domini” faccia parte, oltre al rispetto della legge, anche una profonda fiducia nella santità, in ogni caso, dell’azione divina. Così, alla fine, Giobbe smetterà la diatriba con Dio ammettendo umilmente la distanza che lo separa da lui ma anche la certezza che egli lo assisterà: «Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,4-6).
Un libro, questo di Giobbe, in cui certamente si intravede il futuro sviluppo della Alleanza. In esso, tuttavia, il Messia, l’atteso dalle genti, colui che darà al mondo la chiave vera del rapporto tra uomo e Dio, sottraendoci alle durezze e alle paure della legge e introducendoci pienamente nel regime filiale, è ancora lontano. Per questo, paura e sacro timore ancora si fronteggiavano senza apparente soluzione. Così come possono, del resto, fronteggiarsi ancora oggi, nonostante Gesù sia già venuto da oltre duemila anni, in ognuno di noi almeno fino a quando non avremo realizzato un vero incontro con lui. Al proposito, riassume bene la situazione san Tommaso che descrive quanto può avvenire nel cuore di colui che crede nel suo rapporto con Dio: «L’uomo viene distolto dal male e portato a ben operare in due modi: primo con la paura. Il primo e principale motivo per cui l’uomo comincia a evitare il peccato è la considerazione delle pene dell’inferno e del giudizio finale… E benché il non peccare per paura non sia sufficiente per essere giusto, tuttavia dalla paura ha inizio la giustificazione. È questo il modo proprio della Legge di Mosè per allontanare l’uomo dal male per portarlo al bene… ma poiché tale mezzo è insufficiente, e insufficiente fu la legge data da Mosè per ritrarre dal male, appunto con la paura (essa infatti tratteneva la mano non il cuore) ecco un altro modo di ritrarre dal male e indurre al bene: quello dell’amore. Così fu data la legge di Cristo cioè la legge evangelica che è la legge dell’amore » (In duo praecepta, I).
E quale sia questa legge dell’amore che scaccia la paura ma al contempo riempie il cuore di rispetto, di riconoscenza, di gioia e che porta con sé il dono dell’autentico “timor di Dio” ce lo spiega Giovanni nella sua prima lettera: «Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi». Aggiungendo come nell’amore non ci sia paura ma, al contrario, l’amore perfetto scacci la paura perché essa suppone un castigo e chi ha paura non è perfetto nell’amore (1 Gv 4,15-18). Sintetizzava così Escrivà de Balaguer: «Chi ha paura non sa amare. Dunque tu che sei innamorato e sai amare non puoi aver paura di nulla!».
Una prospettiva davvero rasserenante che risponde perfettamente ai bisogni del nostro cuore e che è, essa sì, in grado di liberarci da ogni laccio per tuffarci nel mare dell’amore divino. Per questo possiamo essere lieti, se pur anche noi, come tutti, oppressi da mille cose, perché abbiamo la certezza non solo che Dio esiste, ma che non è un tiranno che esige, piuttosto è un Padre che ci ama sempre e nel modo giusto e totale di cui abbiamo necessità. Un Padre che comprende e aiuta la nostra fragilità soprattutto attraverso quel Figlio che ci ha donato. Che è ricco di misericordia e che è pronto ogni volta a riaccoglierci quando anche noi, come il figliol prodigo, spesso ci allontaniamo attratti dai tanti luccichii del mondo, imboccando strade pericolose. Ma al contempo anche un Padre con il quale occorre essere seri, non scherzare, non prendersi gioco della sua misericordia. E questo perché non ci capiti di incorrere nella sua giustizia. Per questo il vero timore di Dio è un grande dono dello Spirito. Tenendo inoltre ben presente che se è vero che ciò che ci deve muovere non è innanzitutto la paura dell’inferno, al contempo è assai pericoloso seguire coloro che, anche tra i cattolici, vorrebbero sostenere che esso non esiste. Sappiamo bene, infatti, come sia la nostra stessa libertà a richiederlo e come Dio non possa nulla verso chi volontariamente e in piena coscienza fino all’ultimo rifiuti di riconoscerlo.
Così come sarebbe assai rischioso non rendersi conto di un altro pericolo oggi assai diffuso. E cioè di un’altra e diversa paura rispetto a quella della quale ci siamo occupati fino ad ora. Quella sottolineata con decisione e con frequenza da entrambi gli ultimi papi fin dall’inizio del loro pontificato. La paura cioè che in una società che vuole fare a meno di Dio non si temano i suoi castighi – il che significherebbe essere già entrati, seppure un po’ zoppicanti, in un universo religioso – ma Dio stesso. Paura che la fede in lui limiti la libertà umana, impedisca una realizzazione piena, introduca in una sorta di gabbia fatta di moralismi e di divieti. Ma il guaio – e al contempo la grande fortuna – è che Dio esiste, che lo si voglia ammettere o no. E che, al contrario di quanto oggi molti pensano, è proprio chi non vuole accettarlo che rischia di fare esperienza di situazioni di grave schiavitù, di autentica paura e soggezione di fronte a quei tanti idoli che cercano di spodestarlo.
IL TIMONE N. 104 – ANNO XIII – Giugno 2011 – pag. 56 – 57