Caratteristica comune e inevitabile delle ideologie moderne è la loro indifferenza alla realtà: se i fatti reali contraddicono lo schema, tanto peggio per i fatti, lo schema non va modificato. Per questo le secrezioni intellettuali sono così pericolose. Ne abbiamo già parlato più volte, ma la conferma attuale è troppo evidente e ghiotta perchè non venga voglia di segnalarla. Parlo delle elezioni francesi alla Presidenza della Repubblica.
Da un lato un oriundo ungherese, figlio di un’ebrea, Nicolas Sarkozy, dall’altra Segolène Royal. Occasione “storica”: per la prima volta una donna candidata a quella sorta di monarchia elettiva che è la Presidenza della Repubblica così come voluta dalla grandeur di De Gaulle. Lasciamo stare (per non turbare troppo la retorica imperante) che, quasi sempre, dietro a ogni donna leader politico, c’è un maschio influente: Hillary Clinton, moglie dell’ex – presidente Bill, Indira Gandhi, figlia del Pandit Nehru, Isabelita Peron, presidente dell’Argentina, moglie di Juan Domingo Peron e così via. Anche Segolène non è “senza famiglia”, è la compagna del segretario generale del Partito Socialista francese e deve a lui la sua candidatura. Lasciamo stare, dunque, le origini “familiari”, per concentrarci sul fatto che, subito, si è scatenato il conformismo retorico degli opinionisti “politicamente corretti”: finalmente una femmina, una che addirittura porta di rado i pantaloni preferendo le gonne, candidata al vertice di una delle più illustri e importanti democrazie del mondo! Un onore, un segno decisivo di riscatto per tutte le donne! Leggevo articoli grondanti di soddisfazione: une femme présidente, il sogno che si avvera per l’universo femminile. Chissà, dicevano quegli scribi, come sono tutte contente e impazienti di votarla.
Per quanto mi riguarda, sorridevo ironico. Come ho raccontato in Emporio cattolico, tra gli esami alla facoltà di Scienze Politiche, ne diedi uno sui “comportamenti elettorali”, imparando che in ogni Paese le elettrici sono più numerose degli elettori; che, dunque, se volessero, potrebbero “femminilizzare” parlamenti ed istituzioni. Ma il problema è che le donne non votano per le donne, ogni volta che c’è da scegliere un responsabile – dall’amministratore del condominio sino al presidente della repubblica – preferiscono in genere dare il loro suffragio a un uomo. Per scendere dalla politica agli ambienti aziendali, sia nelle fabbriche che negli uffici, se fossero libere di esprimersi, operaie ed impiegate non opterebbero come capo per una collega ma per un collega. Gelosie, invidie, antipatie per le altre, sfiducia nel loro sesso? Non lo so, quali che siano le ragioni, la realtà è questa.
Dunque, aspettavo l’esito del primo turno delle elezioni francesi sicuro di come sarebbe andato a finire. Al primo turno, la Royal è stata ovviamente scelta con Sarkozy per il ballottaggio finale, seppure molto al disotto come numero di voti. Non poteva non essere scelta, visto che era la candidata unica di tutta la gauche. Dalle prima analisi, risultava chiaro ciò che era evidente per tutti, tranne che per gli ideologi del “politicamente corretto”, secondo il quale le elettrici sarebbero in cerca di riscatto politico. Quelle stesse elettrici, in realtà, avevano votato in maggioranza per l’uomo. Anzi, interrogate, avevano dato risposte come quella non di una donnetta al mercato ma come quella di una delle più note giornaliste francesi: «Non la sopporto. Sembra sempre dire, muovendosi con quel suo corpo: guardatemi, sono bella ma ho anche quattro figli e adesso voglio diventare la numero uno non della mia famiglia ma della Francia intera. No, proprio non mi va giù». E un’altra, donna in carriera politica: «La detesto, vuol fare la maestrina ma, per me, è un’oca». Insomma, sentimenti antichi di avversione femminile che poco hanno a che fare con la politica ma che sembrano inestirpabili persino tra queste femmes savantes e, a parola, femministe. Infine, ecco l’elezione definitiva, ecco il definitivo trionfo dell’oriundo ungherese e, addirittura, un impietosa ricerca sociologica da cui risulta che, se fosse stato solo per il voto delle elettrici, la candidata con la gonna non sarebbe giunta neanche al ballottaggio. La vittoria di Sarkozy è stata la più schiacciante dell’intera storia francese e, pare, proprio a causa del voto femminile per lui.
Tutto prevedibile, tutto nella norma. Io però, maschietto, non ci sto all’editoriale di commento pubblicato dal quotidiano dove io stesso scrivo e dal titolo composto da una sola parola: «Misoginia». Autore, quell’ormai stagionato trombone di Bernard Henry Lévy, secondo il quale la disfatta della Segolène sarebbe il segno del persistere della «tradizionale misoginia dell’uomo francese». Dell’uomo? I fatti, convalidati dai sociologi e dai sondaggisti, dicono esattamente il contrario, è la misoginia femminile non quella maschile che ha tradito l’aspirante présidente. Ma che importano i fatti? Come dicevo, per l’ideologo lo schema non è modificabile: la realtà non ha alcuna rilevanza, nulla conta rispetto allo schema elaborato dagli intellettuali. In ogni caso, come uomo protesto per la diffamazione e propongo anche per noi maschietti una “Lega anticalunnia”: che c’entriamo noi se madame Royal, alla pari del resto di ogni altra candidata a posti di responsabilità, non sta simpatica alla maggioranza delle francesi?
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Già che siamo in tema di donne e di ipocrisie del politically correct, non solo per la rimozione della realtà ma anche per la propensione al risibile e al grottesco. Le amministrazioni “di sinistra” della Spagna di Zapatero hanno stanziato fondi per modificare i semafori pedonali. Per dare il verde, non più la sagoma stilizzata di un uomo ma pure quella di una donna, con sottana e coda di cavallo. Con aria pensosa e seria, sfidando il ridicolo, ha detto il sindaco socialista di Fuenlabrada, a sud di Madrid: «Non ci fermeremo qui, anche il resto della segnaletica machista verrà modificata in nome dell’eguaglianza dei sessi». Qui pure, però, era in agguato la delusione per questi risibili missionari: le donne della cittadina, sondate dai giornalisti, hanno risposto in stragrande maggioranza di essere «del tutto indifferenti alla questione», anzi di «non averci proprio mai pensato».
Un’altra chicca della stessa ideologia. Della vulgata corrente, come si sa bene, fa parte l’ossessione per il tabacco e il grasso: fumatori e obesi sono i nuovi paria, coloro sui quali anche il buonista può infierire a piacimento. Nessuno però pensava che il fanatismo dei nuovi crociati avrebbe finito col coinvolgere una delle più antiche, più famose e più simpatiche icone della pubblicità mondiale. È nel lontano 1898 che il cartellonista parigino Marius Rossillon creò Bibendum, cioè l’omone della Michelin con il corpo tutto composto di pneumatici. Da allora, quella buffa sagoma ha identificato in tutti i Continenti la multinazionale di Clermont Ferrand. Il fatto è che Bibendum nacque grasso – necessariamente, essendo composto di gomma gonfiata – e con un sigaro in bocca. Sigaro che, un tempo, sottolineava la bonomia del personaggio e ne aumentava la simpatia. Lo spirito dei tempi, si sa, ha finito coll’identificare il fumo con il diavolo e, in effetti, già da un paio di decenni, il sigaro è scomparso. Restava l’obesità: pure questa ha a che fare con il satanico, per il salutista politicamente corretto. Ecco allora che i designer della Michelin hanno provveduto alla cura dimagrante: l’omone diverrà presto un omino, le gomme sono state sgonfiate e ora sfoggia una linea che sarebbe approvata persino dai Torquemada nostrani, Veronesi e Sirchia, gli infausti ministri della Sanità italiana con velleità redentrici.
Una terza perla del genere “corretto”, colta – purtroppo – in piazza San Pietro. Da qui, una di queste domeniche, benedetta dal Papa dopo il suo Angelus, è partita una maratona organizzata dalle scuole cattoliche di Roma. Ovviamente, una “corsa per la pace”: e pazienza, questa è la nuova litania, anche se un tempo era diretta a Dio e adesso non si sa a chi. Perchè, per come, una corsetta goliardica dovrebbe contribuire a dare pace al mondo? Possibile che non ci si possa divertire, semplicemente, senza aggiungerci il tocco scaramantico, edificante e “veltroniano”? Vabbé, anche nella Chiesa, ormai, va così, lasciamoli sfogare. Avrei dunque lasciato perdere se, assistendo in tv alla partenza, visto che avevo ascoltato il discorso domenicale di Benedetto XVI, non avessi sentito anche la voce fiera e commossa dello starter: «Il via a questa nostra maratona non sarà dato dal tradizionale colpo di pistola a salve! No, basta con le armi! Il via sarà dato dalla voce umana, non dal fragore della polvere da sparo!».
Ci risiamo con il dilemma: mettersi a ridere oppure a piangere?
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Tra gli obiettivi principali del politicamente corretto c’è la modifica del linguaggio, nella convinzione superstiziosa che cambiare le parole significhi cambiare la realtà. Ecco, dunque, storpi, paralitici, dementi trasformati in «diversamente dotati» o in «differentemente abili» o addirittura in «persone eccezionali», per dire – ma non in che modo – che sono fuori della norma. Lo sforzo per attenuare o, meglio, cancellare quanto sia sgradito non conosce riposo e, occorre riconoscerlo, mostra una sua grottesca inventiva. Per esempio, amici viaggiatori mi segnalano la novità: in caso di sciopero negli aeroporti, per avvertirne i malcapitati passeggeri, non si usa più il troppo forte strike. Non si sa mai, qualcuno potrebbe offendersene e poi, si sa, la verità non va mai detta, almeno nuda e cruda. Pensa e ripensa, ecco che gli altoparlanti annunciano ora che l’aereo non partirà, ma a causa non di uno “sciopero”, bensì di una industrial action, un’azione industriale. Con grande sollievo, si intende, di coloro che restano a terra.
Quanto a me, accetto la sfida delle parole ma, ovviamente, in altro modo: rifiutando, ad esempio, di usare la parola nazismo. Dico e scrivo, cioè – e invito gli altri a farlo – sempre e solo il termine completo e peraltro ufficiale: nazionalsocialismo. È provato che nazismo fu un’invenzione delle sinistre, e non per ragioni di maggior brevità ma per nascondere l’imbarazzante parola “socialismo”. Parola che non stava lì per caso, ma perchè davvero Hitler era anticapitalista (anche se per ragioni tattiche dovette venire a patti con i grandi industriali, che contava però di espropriare a guerra vinta) e parteggiava per la prospettiva socialista. A questa, semplicemente aggiungeva quella nazionalista. Dire nazionalsocialismo, dunque, serve ad indicare con chiarezza l’unione delle due grandi ideologie che hanno devastato l’era contemporanea: non solo quella “di sinistra”, il socialismo, ma anche quella borghese, “di destra”, il nazionalismo. Date retta, reagite, alla censura furbesca elaborata sin dagli anni Trenta dal Comintern, a Mosca. Prima, si intende, del patto tra Hitler e Stalin…
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A proposito di queste cose. Il nazionalsocialismo, si sa, nacque anche per imitazione del fascismo. Adolf stesso disse più volta a Benito che, senza di lui, non avrebbe creato un movimento come il suo. Ebbene, tra le cose di cui è non è educato parlare tra benpensanti c’è il fatto che tutta, ma proprio tutta la simbologia fascista, ha un’origine “democratica”. Tanto per cominciare: chi mai ci ha detto che le prime camicie nere della storia furono un’invenzione di Mazzini che le prescrisse alla sua “Giovane Italia” come lutto per l’umiliazio-ne italiana di essere una nazione senza Stato, occupata ed oppressa? Il fascio con la scure, gli elmi, le daghe, gli archi, le corone di alloro e tutto il bric-à-brac dell’antica Roma adottato dal duce per il suo impero di cartone vengono direttamente dalla Rivoluzione Francese e in particolare dal giacobinismo. Tutta la retorica imperiale, in poesia e prosa, viene da massoni come Giosué Carducci e Giovanni Pascoli che, tra l’altro, fu un cantore dell’espansione coloniale. Lo “stile” fascista viene in gran parte, a cominciare dal fez e dalle canzoni, dai battaglioni di Arditi, creati dopo Caporetto dai governi parlamentari e “democratici” che avevano voluto la guerra: non dimentichiamo che l’interventismo che condusse l’Italia alla “inutile strage”, senza che nessuno glielo chiedesse, fu in gran parte di sinistra. Infine, da dove viene, se non prima dall’illuminismo e poi dal socialismo, il centro e il cuore del fascismo, l’idea dello “Stato etico” onnipresente, onnipotente e che diventa davvero l’oppressivo Grande Fratello?
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Ci hanno nascosto anche il fatto che l’ultimo Ernesto Buonaiuti divenne un ammiratore e un cantore della potenza nazionalsocialista. La cosa, lo ammetto, ha sorpreso anche me, eppure è innegabile anche perchè è riportata – con delusione – da Giordano Bruno Guerri, il noto anticlericale che ha dedicato una elogiativa biografia al prete scomunicato per modernismo. Buonaiuti fu una figura enigmatica, di fronte alla quale è difficile il giudizio. Sono innegabili la sua coerenza, il suo dolore per l’inevitabile scomunica, il suo coraggio davanti al fascismo (fu uno dei 12 docenti universitari che rifiutarono nel 1931 di giurare fedeltà al fascismo), il suo considerarsi sino all’ultimo “prete romano”, rifiutando di sposarsi, di rinunciare alla talare, di passare al protestantesimo o, meno che mai, all’agnosticismo o al deismo. Un personaggio dolente, credo stimabile, malgrado “furbizie” e ambiguità per evitare guai peggiori: ma questa tattica fu di molti esponenti del modernismo. Certo, i frutti del suo albero furono inquietanti: il suo allievo prediletto, Ambrogio Donini (che intervistai per Inchiesta sul cristianesimo) divenne un marxista puro e duro, sino alla fine, e, nel comunismo staliniano, fu uno dei massimi teorici dell’ateismo. Nessuno della cerchia di discepoli di Buonaiuti rimase cattolico. È indubbio, comunque, che il suo antifascismo fu tra i pochi autentici e indomabili. Perché allora la resa, proprio verso la fine? Come ha scritto Pierluigi Battista su Panorama, dopo la lettura della biografia di Guerri «si resta stupefatti e attoniti nell’apprendere che dal 1939 in poi Buonaiuti ebbe a scrivere articoli di entusiastico consenso nei confronti del regime hitleriano. Si tratta di un capitolo non indagato della sua vita, su cui i biografi avevano steso sinora un velo di pietoso silenzio. Ma fa impressione leggere gli inni alla “formidabile potenza germanica” intonati da Buonaiuti nel 1940 dopo il Blitz-Krieg iniziale». Colpisce anche il fatto che l’uomo che aveva professato avversione al regime negli anni del consenso, ricavandone miseria e persecuzione, inneggi alla sciagurata decisione di Mussolini di entrare in guerra a fianco della Germania: «La solenne parola di Roma ha suonato tempestivamente nell’ora sua, per dire al mondo che l’Italia della guerra e della rivoluzione non può straniarsi dalle vicende della politica europea». Un discorso di Hitler? «Misurato, preciso, avvitato da una consapevolezza moderata, che sa i rischi e vede lucidamente la meta. Parole fiere e lungimiranti, quelle del Führer che, accompagnate e fiancheggiate da quelle che rivelano la sicurezza della vittoria, danno la visione dell’immancabile domani».
Perché questa resa, questo abbaglio? In ogni caso, un mito in meno per certa intellighenzia clericale, quella che vorrebbe recuperare il modernismo ancor più di quanto non sia stato fatto in questi decenni postconciliari.
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Parlando sempre di miti. Abbiamo appreso a scuola che coloro che erano oppressi dall’Austria gridavano e scrivevano sui muri, per manifestare il loro dissenso, «Viva Verdi!», intendendo «Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia!». Il musicista emiliano è, nel pantheon risorgimentale, un busto intoccabile. D’accordo, ci fu anche un suo impegno “italiano”, ma piuttosto tardivo. Ci commuoviamo ascoltando il “Va pensiero”, il coro del Nabucco, e lo interpretiamo come anelito verso l’indipendenza e l’unità nazionale. Così ci hanno raccontato. Ma non ci hanno detto che quel Nabucco, rappresentato alla Scala il 9 marzo del 1842, è dedicato nientemeno che a Maria Adelaide d’Asburgo, figlia dell’arciduca Ranieri, Viceré dell’Impero Austriaco a Milano. Dunque, giusto il nemico giurato di ogni “Risorgimento”.
L’anno dopo, Verdi fa rappresentare I lombardi alla prima crociata il cui “O Signore dal tetto natio” diverrà «la bandiera emozionale dei patrioti italiani», per dirla con lo storico Giorgio Rumi. Sarà. Ma c’è un problemino pure qui. Il musicista dedica I Lombardi ancora a un Asburgo, alla figlia dell’Imperatore d’Austria, a Maria Luigia, già moglie di Napoleone ora duchessa di Parma. Alla dedica, Verdi aggiunge una supplica imbarazzante: «Sarà eterna la mia gratitudine e immenso il beneficio se io potessi venire dalla generosità della Venerata Nostra Sovrana onorato di un qualche distintivo il quale nulla più lascerebbe desiderare per la sicurezza di una splendida carriera». Maria Luigia era una persona amabile, ancor oggi i parmigiani la ricordano con simpatia, ma il suo governo era inesistente, essendo il ducato null’altro che un protettorato dell’Austria, vigilato dalla polizia e dall’esercito della Monarchia di Vienna. La patetica supplica per un “distintivo” concesso da una simile fonte mal si accorda con il mito del Verdi profeta dell’Unità sotto i Savoia. Ma, anche qui, che importa? Il mito è il mito…
IL TIMONE – N. 64 – ANNO IX – Giugno 2007 pag. 64-66