Lectio divina di Benedetto XVI al clero romano. Il Papa indica le virtù del sacerdote missionario nel nostro tempo. Servono umiltà e mitezza. E va trasmesso il contenuto della fede studiando il Catechismo della Chiesa Cattolica
Dal 7 al 28 ottobre prossimi si terrà in Vaticano la tredicesima assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi dedicata al tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. Si tratta del tema al centro della vita della Chiesa almeno dal 1974, quando venne convocato un Sinodo dedicato a un argomento simile, “L’evangelizzazione nel mondo moderno”, dal quale nacque l’importante esortazione apostolica post-sinodale del servo di Dio Paolo VI, Evangelii nuntiandi (1975). Allora, nel pieno dello sforzo comunista per impadronirsi del mondo (nel 1975 cadeva Saigon e tutto il mondo asiatico sembrava destinato a diventare “rosso”), la Chiesa rispose rimettendo al centro della propria azione appunto l’evangelizzazione. L’Evangelii nuntiandi fu un documento importante del Magistero, perché aiutò i cattolici d’Occidente a comprendere che erano entrati in una nuova epoca della storia, nella quale i cristiani erano diventati una minoranza, come si comprese negli anni seguenti in Italia con la conferma attraverso referendum popolari della legalizzazione del divorzio (1974) e dell’aborto (1981).
Una fase nuova ha bisogno di un modello adatto. Una Chiesa proiettata soprattutto a comunicare il messaggio della salvezza, una Chiesa missionaria anche nei Paesi un tempo cristiani, deve soprattutto immedesimarsi nella figura del missionario, dell’apostolo. Un missionario formato e ortodosso, certamente, che conosce l’apologetica e la storia della Chiesa, che teologicamente guarda con fiducia e senza ripensamenti al Magistero della Chiesa e del Pontefice in particolare, ma un missionario.
Credo che papa Benedetto XVI abbia contribuito a descrivere questa figura di missionario incontrando i preti della sua diocesi romana il 23 febbraio, nell’Aula Paolo VI, in occasione di una lectio divina che prendeva spunto da un passo della Lettera di san Paolo agli Efesini (4,1-16). La lectio divina è una forma antica di preghiera, di origine monastica, e consiste nel riflettere su poche parole della Scrittura, permettendo alla Parola di Dio di penetrare nel cuore dell’orante e di trasformarlo alla luce dell’imitazione divina. Nelle parole di san Paolo agli Efesini viene delineata la figura del ministro e testimone di Cristo, e delle virtù necessarie per svolgere la missione che Cristo gli affida. A queste virtù il Santo Padre si riallaccia per parlare ai sacerdoti romani del Pastore, di come dovrebbe essere il presbitero dei nostri tempi, nei quali i pastori sono troppo pochi, ma nei quali il Signore continua a chiamare, a suscitare vocazioni, che spesso non vengono ascoltate e neppure percepite.
L’umiltà e la dolcezza
La prima virtù è l’umiltà (Ef 4,2). Può sembrare scontato e banale, ma non è così. Si tratta di impedire che l’«io» occupi impropriamente il centro della propria vita; «essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio…».
L’umiltà è strettamente legata alla verità, ricorda il Papa, la verità sull’uomo e su se stessi in particolare. «L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità». Essere umili non significa soltanto non ritenersi superiori agli altri, non prevaricare nelle relazioni personali, ma anche, e oggi soprattutto, accettare se stessi: «accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme», scrive papa Benedetto XVI.
Accanto all’umiltà il Papa pone la dolcezza, o meglio quella virtù che in greco si chiama praus e ricorda la mitezza di Cristo, che si definì «mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Il mite è il contrario del violento, il mite sa attendere e pazientare, sa vedere e apprezzare le diversità, ma ama, difende e propone le proprie radici. Mitezza e dolcezza sono doti indispensabili per chi voglia proporre qualcosa che il suo interlocutore non conosce, o conosce poco e male, o ha completamente frainteso. Un parroco a cui oggi viene affidata la guida di un comunità cristiana in una parrocchia non dovrebbe preoccuparsi solo di quel 20% circa di persone che trova in chiesa ogni domenica, ma anche di quell’80% che non viene più o che non è mai venuto. La nuova evangelizzazione è appunto una missione nei loro confronti. Mitezza e dolcezza sono indispensabili per avvicinarli, per capire perché non vengono in chiesa, se per educazione ricevuta, se perché hanno subito uno scandalo oppure il fascino discreto di un’altra visione del mondo, o ancora se si sono semplicemente lasciati trasportare da quella vita frenetica alla quale il Papa ha opposto il «silenzio» nel Messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, un silenzio che non è solo assenza di parole, ma feconda trasmissione di senso e di significato.
Che cosa trasmettere
Ma che cosa si tratta di trasmettere? La fede certamente, di cui il Battesimo è il sacramento che non le può essere separato. A questo punto del discorso al clero romano, Benedetto XVI fornisce un insegnamento sintetico e prezioso sull’atto del credere. Esso «inizialmente è soprattutto un incontro personale » con Cristo, come avviene molte volte nei Vangeli, ma «tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto»: «e il battesimo esprime questo contenuto». Quindi l’incontro personale con il Salvatore, la sequela di Colui che ci porta alla salvezza non è compiuta se non fruisce anche del suo insegnamento, della dottrina che Egli trasmette attraverso i Vangeli e la Chiesa, la Scrittura e la Tradizione.
Perciò, continua il Papa, l’Anno dedicato alla Fede che comincia l’11 ottobre prossimo sia anche l’anno dedicato a superare l’«analfabetismo religioso» che colpisce le comunità cristiane, e il Catechismo della Chiesa Cattolica è lo strumento per realizzare questo insegnamento. L’attenzione alle ricorrenze, che nel Papa non sono mai casuali, va anche nella direzione di mostrare la continuità dell’insegnamento della Chiesa: l’11 ottobre 1962, iniziava il Concilio Vaticano II; trent’anni dopo, l’11 ottobre 1992, verrà promulgato il Catechismo della Chiesa Cattolica e quindi l’Anno della Fede, che si concluderà il 24 novembre del 2013.
Una “fede adulta”
Il rinnovamento catechistico è necessario perché la fede sia conosciuta e dunque Dio sia conosciuto. È necessario lo studio del contenuto della fede anche per diventare «adulti nella fede», scrive il Papa, cioè di superare la «fanciullezza» nella fede per cui molti giovani se ne vanno dopo la prima catechesi, così rimanendo bambini nella fede e incapaci di «esporre e rendere presente la filosofia della fede» agli altri uomini. Non certo adulti secondo un altro uso della parola «fede adulta», che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, come scrive Benedetto XVI, nel senso di fede «emancipata dal Magistero della Chiesa»: il risultato, in questo caso, «non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono». Fra gli esempi possibili di fede che non si piega alla volontà del mondo, il Papa porta quello del celibato, carisma della Chiesa in Occidente, capace di indicare «l’ultima destinazione della nostra speranza, verso Dio», e dunque capace di attrarre verso il Signore.
Fidarci di Dio
Conoscere meglio la fede aiuta ad abbandonarsi a Cristo, a «vivere la verità» che Lui incarna e rappresenta e quindi ad abbandonarsi fiduciosi nella sua Onnipotenza. Sì, perché Dio è Onnipotente, ha detto Benedetto XVI smentendo quelle correnti teologiche che negano l’Onnipotenza di Dio a causa dell’esistenza del male nel mondo: «Ma questo non è il modo giusto – dice il Santo Padre – perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince!».
Per saperne di più…
L’incontro con i parroci romani è del 23 febbraio 2012, mentre il Messaggio per la 46° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (che si terrà domenica 20 maggio 2012) è stato reso pubblico il 24 gennaio 2012. Entrambi si trovano sul sito della Santa Sede www.vatican.va.
Sulla lectio divina e le sue diverse fasi, una preghiera che prevede l’indulgenza della Chiesa secondo le solite disposizioni e ha come modello Maria SS.ma, cfr. l’esortazione apostolica post-sinodale di Benedetto XVI Verbum Domini, del 30 settembre 2010, n. 8
IL TIMONE N. 112 – ANNO XIV – Aprile 2012 – pag. 56 – 57
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