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11.12.2024

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Tre poeti cristiani contemporanei
31 Gennaio 2014

Tre poeti cristiani contemporanei

Dopo la fiammata romantica dell’800 ed ermetica nel ‘900, la poesia vive da mezzo secolo una stagione di impopolarità: parla una lingua che poco comunica ad altri del senso poetico. L’itinerario discensionale della poesia europea è quasi tutto nelle liriche del tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1843) sulle quali Romano Guardini si fermò (in Hölderlin, Morcelliana 1995,2 voll.) ad analizzarne la titanica ispirazione: il presentimento del destino imminente alla cultura occidentale che più non riconosca Dio come presenza vicina.
Guardini scandaglia angoli cari o remoti, la natura, il presentimento del sacro, con mano rispettosa: offre il ritratto ideale degli uomini contemporanei per i quali “gli dèi sono fuggiti”, estranei, lontani. L’imponenza di montagne e fiumi, il rapimento per le ampie scene panoramiche della Germania, il fascino di eroi epici della Grecia spinsero Hölderlin alla follia; e dopo le dolci malinconie e le ballate popolari del Romanticismo, che Gomez Dàvila definiva” l’eredità lasciata alla letteratura dalla controrivoluzione soffocata”, per i poeti cristiani vennero tempi duri.
Cent’anni dopo, infatti, il francese Charles Péguy (1873-1914) dovrà fare i conti con se stesso e con una società radicalmente sorda alla voce divina. Uomo e artista tra i più fecondi che la letteratura recente sappia vantare, di famiglia provinciale e laicista, socialista appassionato per il popolo, in un’epoca materialista si riconobbe invincibilmente affascinato da Cristo e dalla Vergine Maria: scrittore, convertito, povero, convinto che solo lo stupore conosce. Fu uomo del suo tempo sino in fondo; soldato, caduto della Grande Guerra, in trincea durante la battaglia della Marna.
E qualche anno più tardi, l’angloamericano T.S. Eliot (1888-1965) sarà protagonista di una clamorosa conversione che gli avrebbe alienate molte simpatie: mentre la Terra desolata, i Quattro quartetti, l’Assassinio nella cattedrale e i saggi costituiscono un vertice non aggirabile per chi voglia continuare a fare poesia dopo i venticinque anni.

Cinque poemetti

Giovanni Casoli (Roma, 1945) è poeta cresciuto proprio in compagnia di Eliot e Péguy e Holderlin.
Nella raccolta Cinque poemetti (Loggia de’ Lanzi, 2002) ha accenti indimenticabili quando raffigura un’Italia ai giorni nostri smarrita nelle promesse del consumismo e della Tv: essa cerca Dio non sapendo più dove, sacramentalmente, trovarlo.
Nel centro della raccolta, Il testamento costituisce il magnete di tutta l’opera; dramma “recitato” per quasi duemila versi, nasce da un fatto avvenuto: cinque fratelli, Paola, . Giovanni, Luigi, Renato e Ugo sono riuniti al cospetto della madre cristianamente trapassata, della quale leggono il testamento.

“Ricordatevi la santa Messa,
se fate del male confessatevi:
Dio è buono vi consolerà.
Perdonate, non odiate nessuno.
(…)
Ricordate le parole della mamma,
quando sarò morta le capirete”.

I versi, semplici, vanno dritti al cuore passando per l’esperienza comune di gioia e ricordo. La vicenda del poemetto è poi complicata da un terremoto (coincidenze con il presente italiano?) che trasforma i protagonisti mediante il dolore; e a turbare ulteriormente verranno una grave malattia e un fatto di violenza: insomma, l’imprevisto li mette alla prova.
L’ultima parola, però, spetta alla speranza perché il testamento è in piena esecuzione e consente ai fratelli di riscoprirsi tali.
Nitido spicca il timbro degli affetti, se affetto è la fecondità del fidarsi di Cristo; per un poeta, è anche abbandonarsi alla povertà della parola. Così Casoli risponde da artista al detto holderliniano “pieno di meriti, ma poeticamente vive l’uomo sulla terra”.

Il pane sulle acque

Marco Beck (Milano, 1949) raccoglie venticinque anni di vita in versi liberi: l’impronta indelebile della famiglia d’origine si unisce alla forza sorgiva dell’amore matrimoniale, al senso di eternità nei figli, e gli offre la forza creativa di trasfigurare in poesia la fatica non ingrata delle vicende quotidiane.
Ne Il pane sulle acque (Ares, 2000), il cui titolo proviene da un versetto di Qoèlet, c’è un capitolo dedicato alla memoria della madre morta che è preghiera e pio canto, insieme. La mamma del poeta diventa, come già per Ungaretti e per milioni di uomini nel corso della storia, il tramite tra cielo e terra ovvero il ponte tra Gesù e il figlio che ancora cammina, incerto, nel mondo: abbandonare la fede per causa del dolore sarebbe come tradire la memoria della propria genitrice:

So che se abiurassi, l’ultimo
irreciso cordone ombelicale
troncherei
con queste mani:
le mie stesse mani
che appresero ad amare
tastando le pareti
d’un grembo innamorato
di ragazza.

Dolcezza sconvolgente è poi capire come quel “grembo innamorato di ragazza” fosse il sereno nido entro cui la madre lo portò per nove mesi, prima di darlo alla luce. Lo stupore davanti alla regalità delle cose di tutti i giorni è ovunque, in questo diario poetico; come in una delle conversazioni tra genitori e figli, elevate da Beck a occasione di poesia:

“Non voglio crescere” le ha detto;
“così sarò per sempre il tuo bambino”.
La sua chiaroveggenza
gli fa fin d’ora ripudiare la maturità,
lo avverte che il carisma dell’infanzia
fugge all’avanzare della vita.

Altro non è il saggio
– dice Cardarelli – “che un fanciullo
che si duole d’essere cresciuto”.
Si può già esser saggi
a non ancor compiuti anni tre.

Signoria del mendicante
Mauro Grimaldi (Muggiò, 1958) esprime la realtà dei nostri anni di trasformazione grazie a un suo originale e affascinante linguaggio della poesia:

Finché si abitava col padrone della tenuta
si poteva godere dello spettacolo della terra,
ma dacché ce ne siamo andati
per intraprendere un’attività privata
i colori si sono mescolati in un impasto indefinito,
le parole sono pupazzetti di carta legati a fisarmonica.

Ma l’accenno alla miseria del presente è solo un soffio, ancorché di smog: la voce poetica di Grimaldi (la cui raccolta è tuttora inedita) invita a fare conoscenza di Colui che già ci conosce, a conviverci assieme, a scoprire cosa sia la “letizia” di qualcuno che “stasera deve venire a casa nostra”, si autoinvita mentre “sbrighiamo le solite faccende” di una “scandalosa ferialità”. È una poesia che come luce dall’alto non teme di ferire l’ombra, illuminandola. Non teme di uscire per strada, per conoscere il tepore della casa: persuasa, come Shakespeare, che “la maturità è tutto” sulla via verso un destino che per tutti è destino d’amore:

Per quel che mi riguarda
voglio solo scrivere i nomi.
Pietro Andrea
Giacomo Giovanni
solo nomi,
Filippo Paolo
Ambrogio Tommaso
pagine di nomi,
Luigi Antonio
Guido Giancarlo
Stefano Michele
nomi numerosi
come i granelli della sabbia,
le stelle del cielo;
come ogni singolo capello
di ogni singolo uomo,
come un lieto calendario.



IL TIMONE N. 24 – ANNO V – Marzo/Aprile 2003 – pag. 44 – 45

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