Pochissimi la fanno, moltissimi la vedono. La Tv sembra una finestra aperta sul mondo, invece le idee di pochi influenzano milioni. Urge preparare cattolici che sappiano far sentire la loro voce nel mondo della comunicazione.
Siamo alla vigilia del cinquantesimo compleanno, che cadrà nel gennaio 2004, della televisione in Italia ed è veramente difficile esagerare l’importanza che la televisione ha avuto nelle trasformazioni della nostra società. La tv è un elettrodomestico che ogni italiano guarda – in media – per circa tre ore e mezza o quattro al giorno, e per tutta la vita. Un diciottenne, per esempio, ha circa 20.000 ore di televisione nel suo curriculum. L’impatto è quindi continuo e profondo, agisce sulle lunghe distanze e spesso l’influenza della tv non è quella più ovvia e diretta; essa agisce come una sorta di “ambiente di coltura” che coltiva atteggiamenti di fondo (per esempio fiducia o sfiducia, soddisfazione o insoddisfazione), incide sulle relazioni familiari (la televisione come fonte di dialogo o di scontro), sulle dinamiche di previsione del proprio futuro, di decodifica di situazioni reali in cui ci si viene a trovare, ecc.
Di fronte alle moltissime cose che si potrebbero dire sulla televisione, il dato più elementare, ma fondamentale è sempre quello numerico: ogni sera, in Italia, dai 25 ai 30 milioni di persone si sintonizzano sui primi sei canali nazionali.
Questo dato diventa ancora più impressionante se si considera che viceversa il numero di coloro che “fanno” la televisione è un numero infinitesimale, bassissimo. La televisione tende a dare l’impressione di una presa diretta sulla realtà, di essere una “finestra sul mondo” sostanzialmente neutrale, ma è invece un discorso costruito ed elaborato da un numero molto ridotto di persone, infinitesimo rispetto al numero degli spettatori. Questa dinamica, per cui ci sono pochissimi che parlano a moltissimi, è ancora più accentuata se invece del numero di coloro che “appaiono” in televisione si considera il numero di chi elabora o decide i contenuti di quello che va in onda.
Le decisioni veramente importanti sono prese di fatto da poche decine di persone: questo non perché ci sia chissà quale regia occulta, ma semplicemente perché nelle dinamiche autoriali e nelle catene decisionali poche persone sono sufficienti e non ne servono di più. Poche decine – al massimo qualche centinaio – di persone sono quelle che “costruiscono” quello che vedono milioni di persone ogni giorno.
La televisione è sempre, inevitabilmente, fatta da un’élite, ed è inevitabile che in essa filtrino atteggiamenti, pregiudizi, idee, opinioni che sono proprie di questa élite e che sono di solito – in tutti i Paesi – fortemente differenti, a volte enormemente differenti, da atteggiamenti e credenze della grandissima maggioranza della popolazione.
Studi sociologici che abbiamo richiamato in altre occasioni, ma anche la stessa osservazione diretta dell’ambiente televisivo, dicono che lo stile di vita, là mentalità, la cultura delle persone che fanno la televisione sono sostanzialmente diverse da quelli di coloro che la fruiscono. Non solo sono mediamente assai più ricchi, con titolo di studio più alto, ma fra i professionisti della televisione si trovano una grande quantità di singles o di persone con vita matrimoniale travagliata o comunque irregolare. Le ricerche Usa dicono che le loro opinioni su temi controversi come divorzio, aborto, omosessualità sono significativamente più libertarie rispetto a quelle della maggioranza della popolazione. Per quanto riguarda un elemento significativo come l’atteggiamento religioso, in tutti i Paesi occidentali, l’ambiente televisivo e cinematografico è assai permeato di cultura radicale, laicista e comunque sostanzialmente lontana dalla religione, considerevolmente di più di quanto non lo sia la popolazione di questi stessi Paesi. Naturalmente in questi casi la media élite, permeando della propria sensibilità i programmi che elabora, fa da diffusore di questi atteggiamenti e stili di vita e se non ci sono eventi forti e significativi in direzione contraria, l’effetto è appunto quello tipico dell’azione di un’avanguardia culturale: diffondere le proprie idee poco a poco portando una fascia sempre più ampia di popolazione a pensare e a vivere in questo modo.
In Italia, dal punto di vista della sensibilità religiosa abbiamo avuto la enorme fortuna – un caso unico in Europa – che la proposta di fiction a contenuto religioso iniziata poco prima della metà degli anni Novanta dalla Lux vide, la casa di produzione diretta da Ettore Bernabei, ha trovato grandissimi riscontri di audience e ha portato poco a poco a ripetere e ad ampliare questo tipo di proposta, trovando sinora un’accoglienza sempre eccezionale fra il pubblico: queste proposte giungevano – fra lo scetticismo generale degli operatori dopo molti anni in cui sembrava che non ci fosse spazio per parlare di Dio o di fede in televisione. Ma il motivo non era che la gente rifiutasse questo tipo di programmi: semplicemente che nessuno fra coloro che facevano la televisione aveva da un bel po’ di anni pensato che fosse possibile, utile, opportuno, proporre questo tipo di prodotti.
Queste coraggiose iniziative hanno fatto sì che moltissime persone abbiano potuto conoscere – pur con le inevitabili semplificazioni di un prodotto che deve andare a milioni di spettatori – le principali storie della Bibbia, e le vite di santi popolari come Padre Pio, S. Antonio da Padova, il beato Giovanni XXIII. Tranne qualche rara eccezione, sono di solito prodotti interessanti e ben fatti, che possono servire alle persone più semplici per un primo approccio a tematiche religiose.
Tornando alla tv, non bisogna dimenticare che ci sono alcuni effetti e alcuni meccanismi tipicamente televisivi che tendono a costruire delle messe in scena profondamente distorte della realtà stessa. Un esempio fra i mille che si potrebbero fare. L’idea che in ogni prodotto seriale televisivo debba esserci una storia d’amore, cioè – per essere più esatti – la storia della formazione di una coppia, tende a rappresentare coppie (e quindi anche famiglie radicalmente instabili: coppie che si formano e poi si dividono, oppure solo un lato di questo doppio movimento. Da qui l’abbondanza, nella fiction di vedovi che devono ricostituire una coppia (Un medico in famiglia, Il maresciallo Rocca), o di coppie che si sfasciano. Sono quasi assenti, invece, le coppie stabili. Chi guardasse solo la fiction e non la società potrebbe pensare che i matrimoni che reggono sono uno su mille. In realtà la percentuale di matrimoni stabili è ancora di 4 su 5, Italia, ma questo nelle fiction (e anche – in modo diverso – nel cinema europeo) tende a non vedersi. In conclusione, si tratta di ricordare sempre, di fronte a un programma televisivo, che è un discorso pensato e scritto da qualcuno che non ha – di per sé – nessun motivo particolare per essere rappresentativo della realtà. Inoltre, ma qui apriremmo un altro discorso, per i cristiani si fa sempre più urgente la responsabilità non solo di formazione degli utenti e di esercizio della critica, ma anche di “generare” professionalità nel mondo della comunicazione, che possano, grazie al loro talento, far sentire anche la loro voce é quella di tanti altri.
BIBLIOGRAFIA
Ettore Bernabei (con Giorgio Dell’Arti), L’uomo di fiducia, Mondadori, Milano 1999.
Ettore Bernabei (con Gabriele La Porta), Tv qualità. Terra promessa, Eri, Roma 2003.
Gianfranco Bettetini – Armando Fumagalli, Quel che resta dei media. Idee per un’etica della comunicazione, Franco Angeli, Milano 1998, 20036.
Armando Fumagalli, Le élites mediali e le scelte culturali dei media, in Credere oggi, n.124 (2001), pp.71-93.
Armando Fumagalli, Chiesa e comunicazione: dopo le parabole mediatiche, in Studi cattolici, n. 505 (2003), pp.188-192.
IL TIMONE N. 27 – ANNO V – Settembre/Ottobre 2003 – pag. 48 – 49