Dalla Turchia all’Indonesia, dall’Algeria all’Arabia Saudita, i Paesi musulmani sono campioni nella repressione dei cristiani. Colpa di una concezione dei diritti dell’uomo subordinata all’appartenenza all’islam.
Difficile per i cristiani anche la situazione in Iran. La Costituzione considera «dovere del governo della Repubblica islamica dell’Iran e di tutti i musulmani trattare i non musulmani in conformità con le norme etiche e i principi della giustizia ed equità islamiche, e rispettare i loro diritti umani», ma essa precisa subito che «questo principio si applica a tutti coloro che si astengono dal prendere parte a cospirazioni o attività contro l’islam e la Repubblica islamica dell’Iran». Quasi i non musulmani fossero in principio sospettati di tradire gli interessi nazionali.
Nel vicino Pakistan, la libertà religiosa non è migliore: chiese distrutte, cristiani costretti a divenire musulmani o accusati di blasfemia sono fatti all’ordine del giorno. Alla fine di luglio, la Commissione episcopale pachistana Giustizia e Pace ha espresso la sua preoccupazione per la riforma dell’insegnamento scolastico in Pakistan, che prevede come obbligatori lo studio dell’islam e la preghiera coranica durante le lezioni. L’ultimo episodio di violenza risale invece al 12 agosto quando una trentina di musulmani armati hanno attaccato una chiesa protestante e appiccato il fuoco in alcune case nel villaggio cristiano di Mominpura Thaiki, vicino a Lahore. Il mandante delle violenze sembra essere un ricco musulmano che si vuole impossessare del terreno del villaggio. Pochi giorni dopo, un vescovo pachistano protestante, Thimotheus Nasir, ha deciso di rifiutare la nazionalità pachistana per protestare contro l’odio religioso presente nel suo Paese. In una lettera indirizzata al presidente Musharraf, il vescovo dice «di aver esaurito la pazienza» a causa «della discriminazione religiosa, dell’intolleranza verso le comunità cristiane ad ogni livello della società pachistana» e fa notare che mentre esistono leggi che proibiscono offese contro il Corano, i dottori coranici trovano «piacere nell’insultare la mia religione, la sacra Bibbia e i santi personaggi della cristianità».
La Costituzione della Malaysia «garantisce a ogni individuo il diritto di professare, praticare e propagare la sua religione», ma prevede che tutta la popolazione di etnia malay (il 47,7% della popolazione) sia considerata musulmana. Nell’esperienza quotidiana sono perciò numerose le denunce di discriminazioni nonostante le rassicurazioni del premier Badawi in cui afferma che «non c’è motivo di temere persecuzioni o discriminazioni in base alla fede» nel suo Paese. La Corte federale, che da mesi ha in mano l’appello di Lina Joy perché le venga riconosciuta la conversione al cristianesimo, ha deciso in agosto di esprimersi in tempi brevi, perché la questione «è delicata e richiede un attento esame». Intanto crescono di giorno in giorno le pressioni degli estremisti islamici (attraverso, per esempio una denuncia a carico della parrocchia in cui la Joy è stata battezzata), intenzionati ad impedire che un positivo esito del caso possa dare il via ad una “fuga dall’islam” di altri fedeli.
Ma anche in un Paese, come la Turchia, che si definisce uno «Stato di diritto, democratico, laico e sociale che rispetta i diritti dell’uomo» la realtà è penosa. «In Turchia, la libertà religiosa esiste solo sulla carta», denunciava l’anno scorso l’ex nunzio apostolico ad Ankara, che giunge a parlare di una «cristianofobia istituzionale non molto dissimile da quella esistente in altri Paesi musulmani». Per monsignor Edmond Farhat, la libertà «viene sancita dalla Costituzione, ma nei fatti non viene applicata: mancanze nel-l’applicazione delle leggi a tutela dell’esercizio delle altre religioni, processi che durano decenni, strani ritardi e rinvii a ripetizione, reticenze e resistenze fanno pensare ad una strategia per non consentire ai cristiani la stessa libertà di cui le religioni non cristiane godono in Europa».
Un regresso si registra da qualche anno anche in Paesi tradizionalmente tolleranti. In Algeria, ad esempio, è stata approvata lo scorso 20 marzo una «legge sull’esercizio dei riti religiosi non islamici» che, secondo il ministro della Giustizia Tayeb Belaiz, rappresentava «un quadro giuridico che garantisce il consolidamento del principio della libertà di culto previsto dalla Costituzione, dalle Carte e dai patti internazionali». Anche la stampa locale ha fatto l’elogio di un testo che «intende consacrare la tolleranza, la convivenza interreligiosa e la protezione statale del culto non islamico nel quadro del rispetto dei diritti e libertà altrui». La realtà è, purtroppo, diversa.
La nuova legge vieta infatti l’esercizio del culto non islamico al di fuori degli edifici adibiti all’uopo e subordina questi edifici all’ottenimento di una previa autorizzazione. Un articolo prevede soprattutto una multa da 500 mila a un milione di dinari (da 5 a 10 mila euro) e una pena carceraria da due a cinque anni contro «chiunque cambi la funzione originaria dei luoghi di culto» oppure «inciti o costringa o usi mezzi persuasivi per costringere un musulmano ad abbracciare un’altra religione».
Stesse pene contro chi «produce o immagazzina o distribuisce pubblicazioni o cassette audio e video o altri mezzi volti a minare la fede nell’islam».
Dossier: La Chiesa nel mirino
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