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14.12.2024

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Uccisi in nome di Allah
31 Gennaio 2014

Uccisi in nome di Allah

Dalla Turchia all’Indonesia, dall’Algeria all’Arabia Saudita, i Paesi musulmani sono campioni nella repressione dei cristiani. Colpa di una concezione dei diritti dell’uomo subordinata all’appartenenza all’islam.

La libertà religiosa viene giustamente considerata uno dei pilastri della modernità, ma il suo esercizio è sostanzialmente negato o incontra ancora molti limiti in varie parti del mondo islamico. Se l’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che «ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione», non sono altrettanto espliciti su questo punto i documenti “paralleli” elaborati dalle istituzioni internazionali islamiche, come la Dichiarazione universale isla-mica dei diritti umani del 1981 oppure la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam, approvata nel 1990 dall’Organizza-zione della Conferenza Islamica (Oci). La prima Dichiarazione afferma che «ognuno ha il diritto di pensare e di credere ciò che vuole (…) senza che nessuno vi si intrometta o glielo proibisca», ma precisa subito dopo che ciò deve sempre avvenire “entro i limiti stabiliti in proposito dalla legge islamica”. “In effetti – prosegue l’articolo 12 – nessuno ha il diritto di propagare l’errore o di diffondere notizie tali da incoraggiare l’indecenza o da umiliare la comunità islamica”.
L’articolo 2 della Dichiarazione dell’Oci afferma invece che «nessuno è autorizzato a limitare le garanzie della libertà religiosa», ma la portata di questa solenne dichiarazione viene di fatto neutralizzata dalla precisazione «se non attraverso l’autorità islamica e conformemente alle disposizioni che essa stipula».
Il concetto di libertà religiosa che pure viene menzionato nelle Costituzioni di molti Paesi islamici può quindi essere correttamente inteso solo all’interno di una logica confessionale, dal momento che queste Costituzioni affermano che il diritto musulmano è «una fonte principale di legislazione» o, in altri casi, «la fonte principale di legislazione». Per questo motivo gli Stati islamici che hanno sottoscritto la Dichiarazione universale dell’Onu hanno introdotto alcune postille che ne riducono la portata per quanto attiene la libertà religiosa.
Nella pratica la situazione varia da Paese a Paese. Quelli sulla “lista nera” o “sotto osservazione” da parte degli organismi internazionali sono l’Iran, il Sudan, l’Afghanistan, il Bangladesh, l’Egitto, l’Indonesia e la Nigeria. Ma primo in classifica è da anni l’Arabia Saudita. Il governo di Riad proibisce la pratica di ogni religione diversa dall’islam wahhabita e solo di recente, e grazie alle pressioni internazionali, ha permesso la pratica di altre religioni, ma solo in privato. Nel regno non è permesso costruire luoghi di culto, chiese o cappelle, è proibita la missione e ogni manifestazione pubblica (avere Bibbie, portare un crocifisso, un rosario). Al divieto vigilano i muttawa’in, la polizia religiosa conosciuta per la sua spregiudicatezza e violenza nelle torture. L’ultimo episodio a danno di cristiani è avvenuto lo scorso 9 giugno quando dieci poliziotti armati di manganelli hanno fatto irruzione in un’abitazione privata a Jeddah, arrestando i quattro leader cristiani, tutti di origine africana, che guidavano una funzione religiosa cui partecipavano oltre un centinaio di eritrei, etiopi e filippini.
Scandaloso in questo caso l’atteggiamento degli “amici” occidentali di questo importante fornitore di petrolio. Lo scorso luglio il Dipartimento di Stato americano ha deciso di mantenere la sospensione delle sanzioni contro Riad – previste per i Paesi sulla lista nera della libertà religiosa – dopo le ennesime promesse saudite di garantire la pratica religiosa in privato ai residenti non musulmani, di vietare l’uso di fondi statali per i libri di testo che incitano all’odio religioso, di fare nuovi corsi di aggiornamento per gli insegnanti e gli imam e di regolamentare le competenze della polizia religiosa. Eppure il regno è stato definito di “particolare preoccupazione” negli ultimi due rapporti annuali del Dipartimento sulla libertà religiosa nel mondo e solo lo scorso maggio il capo della Commissione del Congresso per la libertà internazionale di religione aveva spiegato che la situazione in Arabia Saudita non è sostanzialmente migliorata da due anni a questa parte. Per Michael Cromartie, il governo degli Stati Uniti «non dovrebbe esitare ad assumere un’azione decisa» verso quel Paese, come limitazioni ai viaggi dei funzionari sauditi o limiti alle esportazioni.

Difficile per i cristiani anche la situazione in Iran. La Costituzione considera «dovere del governo della Repubblica islamica dell’Iran e di tutti i musulmani trattare i non musulmani in conformità con le norme etiche e i principi della giustizia ed equità islamiche, e rispettare i loro diritti umani», ma essa precisa subito che «questo principio si applica a tutti coloro che si astengono dal prendere parte a cospirazioni o attività contro l’islam e la Repubblica islamica dell’Iran». Quasi i non musulmani fossero in principio sospettati di tradire gli interessi nazionali.

Nel vicino Pakistan, la libertà religiosa non è migliore: chiese distrutte, cristiani costretti a divenire musulmani o accusati di blasfemia sono fatti all’ordine del giorno. Alla fine di luglio, la Commissione episcopale pachistana Giustizia e Pace ha espresso la sua preoccupazione per la riforma dell’insegnamento scolastico in Pakistan, che prevede come obbligatori lo studio dell’islam e la preghiera coranica durante le lezioni. L’ultimo episodio di violenza risale invece al 12 agosto quando una trentina di musulmani armati hanno attaccato una chiesa protestante e appiccato il fuoco in alcune case nel villaggio cristiano di Mominpura Thaiki, vicino a Lahore. Il mandante delle violenze sembra essere un ricco musulmano che si vuole impossessare del terreno del villaggio. Pochi giorni dopo, un vescovo pachistano protestante, Thimotheus Nasir, ha deciso di rifiutare la nazionalità pachistana per protestare contro l’odio religioso presente nel suo Paese. In una lettera indirizzata al presidente Musharraf, il vescovo dice «di aver esaurito la pazienza» a causa «della discriminazione religiosa, dell’intolleranza verso le comunità cristiane ad ogni livello della società pachistana» e fa notare che mentre esistono leggi che proibiscono offese contro il Corano, i dottori coranici trovano «piacere nell’insultare la mia religione, la sacra Bibbia e i santi personaggi della cristianità».
La Costituzione della Malaysia «garantisce a ogni individuo il diritto di professare, praticare e propagare la sua religione», ma prevede che tutta la popolazione di etnia malay (il 47,7% della popolazione) sia considerata musulmana. Nell’esperienza quotidiana sono perciò numerose le denunce di discriminazioni nonostante le rassicurazioni del premier Badawi in cui afferma che «non c’è motivo di temere persecuzioni o discriminazioni in base alla fede» nel suo Paese. La Corte federale, che da mesi ha in mano l’appello di Lina Joy perché le venga riconosciuta la conversione al cristianesimo, ha deciso in agosto di esprimersi in tempi brevi, perché la questione «è delicata e richiede un attento esame». Intanto crescono di giorno in giorno le pressioni degli estremisti islamici (attraverso, per esempio una denuncia a carico della parrocchia in cui la Joy è stata battezzata), intenzionati ad impedire che un positivo esito del caso possa dare il via ad una “fuga dall’islam” di altri fedeli.

Ma anche in un Paese, come la Turchia, che si definisce uno «Stato di diritto, democratico, laico e sociale che rispetta i diritti dell’uomo» la realtà è penosa. «In Turchia, la libertà religiosa esiste solo sulla carta», denunciava l’anno scorso l’ex nunzio apostolico ad Ankara, che giunge a parlare di una «cristianofobia istituzionale non molto dissimile da quella esistente in altri Paesi musulmani». Per monsignor Edmond Farhat, la libertà «viene sancita dalla Costituzione, ma nei fatti non viene applicata: mancanze nel-l’applicazione delle leggi a tutela dell’esercizio delle altre religioni, processi che durano decenni, strani ritardi e rinvii a ripetizione, reticenze e resistenze fanno pensare ad una strategia per non consentire ai cristiani la stessa libertà di cui le religioni non cristiane godono in Europa».

Un regresso si registra da qualche anno anche in Paesi tradizionalmente tolleranti. In Algeria, ad esempio, è stata approvata lo scorso 20 marzo una «legge sull’esercizio dei riti religiosi non islamici» che, secondo il ministro della Giustizia Tayeb Belaiz, rappresentava «un quadro giuridico che garantisce il consolidamento del principio della libertà di culto previsto dalla Costituzione, dalle Carte e dai patti internazionali». Anche la stampa locale ha fatto l’elogio di un testo che «intende consacrare la tolleranza, la convivenza interreligiosa e la protezione statale del culto non islamico nel quadro del rispetto dei diritti e libertà altrui». La realtà è, purtroppo, diversa.
La nuova legge vieta infatti l’esercizio del culto non islamico al di fuori degli edifici adibiti all’uopo e subordina questi edifici all’ottenimento di una previa autorizzazione. Un articolo prevede soprattutto una multa da 500 mila a un milione di dinari (da 5 a 10 mila euro) e una pena carceraria da due a cinque anni contro «chiunque cambi la funzione originaria dei luoghi di culto» oppure «inciti o costringa o usi mezzi persuasivi per costringere un musulmano ad abbracciare un’altra religione».
Stesse pene contro chi «produce o immagazzina o distribuisce pubblicazioni o cassette audio e video o altri mezzi volti a minare la fede nell’islam».

«…il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a more, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà».
(Marco 10,33-34).

«E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna».
(Matteo 10,28).

Dossier: La Chiesa nel mirino

IL TIMONE – N. 56 – ANNO VIII – Settembre/Ottobre 2006 – pag. 39 – 41

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