Nel capitolo 18 del libro della Genesi, subito dopo l’apparizione di Dio ad Abramo alle querce di Mamre, troviamo il celebre episodio della preghiera di intercessione del patriarca per le città di Sodoma e Gomorra. Il peccato in quei luoghi è veramente orribile: i cittadini violano la sacra legge dell’ospitalità (risalta la differenza con il comportamento di Abramo che ha appena accolto i tre pellegrini nelle sua tenda) e vogliono sfogare ai danni dei visitatori la perversione sessuale in cui vivono. Il disordine delle passioni produce sempre, a lungo andare, violenza: tende ad imporsi e non sopporta che ci sia qualcuno che si rifiuta di accettarlo come “normale”.
Non appena conosce il proposito di Dio, la reazione di Abramo è stupefacente: intercede per loro. Se leggiamo il testo con attenzione – aiutati dal commento che il Papa ne ha fatto nell’udienza generale del 18 maggio – ci accorgiamo che prospetta un superamento della giustizia vendicativa umana. Dio è invitato non a punire, ma a giustificare. La giustizia umana non è annullata. Essa deve continuare a cercare e punire le colpe pericolose per la convivenza umana: non può mai essere però la soluzione definitiva del problema, anzi – quando pretende ideologicamente di esserlo – peggiora orribilmente la situazione dell’uomo.
Illudendosi di togliere con le proprie forze ogni ingiustizia, l’uomo crea una situazione “infernale” di ingiustizia che tende a privare l’uomo – ogni uomo – della sua dignità, cioè della sua libertà. Il peccato deve certamente essere punito, anzi esso porta già in sé i germi della sua punizione: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio, e non avere più timore di me» (Ger 2,19). La causa ultima di ogni male del mondo è il peccato e la peggiore punizione che Dio possa infliggere all’uomo è lasciare che il peccato dell’uomo (e a monte quello degli angeli malvagi) produca i suoi frutti. Ma Dio non vuole la morte del peccatore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23; cfr. 33,11).
La giustificazione di Dio non consiste nell’annullare la pena, ma nell’annientare il peccato. Perché questo avvenga però è necessario che ci sia un germe di bene all’interno della realtà malata: Dio offre la salvezza, ma non vuole che ciò avvenga senza quella libertà che costituisce la somma dignità della persona. Occorrono dei giusti nella città. Qui si ingaggia come una meravigliosa “battaglia” tra Abramo e Dio: se ci fossero cinquanta giusti? Quaranta… trenta… venti… dieci. A tutte le domande del suo servo fedele, Dio promette perdono. In questo brano ci si ferma a dieci, ma la Bibbia allarga il discorso. Ci si potrebbe fermare anche ad uno solo: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (Ger 5,1). Purtroppo la ricerca anche di un solo giusto dà risultati deludenti: «Sono tutti traviati, tutti corrotti; non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 14,3; 53,4). Può sembrare una conclusione troppo pessimista, ma solo per chi non riflette con attenzione sulla storia sacra. Tutti i grandi e santi personaggi della Bibbia, che pure sono additati come modelli, presentano qualche lato “oscuro”: pensiamo anche solo a Mosè, a Davide, oppure allo stesso Abramo che – con tutta la sua grande e reale fede – cerca di “far tornare” umanamente i piani di Dio unendosi alla schiava egiziana Agar. Anche la ragione umana naturale è arrivata alla stessa conclusione: Platone, nel secondo libro della Repubblica, fa una riflessione stupefacente: se in questo mondo venisse un giusto, un giusto “per davvero”, un giusto che sia tale nel profondo del suo intimo e che come tale si comporti ed operi, che cosa succederebbe? «Se è così come l’ho descritto, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in ceppi, avrà bruciati gli occhi e infine, dopo avere sofferto ogni sorta di mali, verrà impalato (ma il termine greco usato da Platone può essere tradotto anche con “crocifisso”)» (Repubblica, II 361e – 362a). Non ci si può meravigliare che molti abbiano parlato di Platone “profeta”…
Ma ad un tale risultato si può arrivare anche soltanto con un quotidiano esame di coscienza, che ci faccia esplorare in profondità, con la luce che ci viene dall’alto, la nostra umanità peccatrice.
Allora però si comprende meglio la decisione di Dio: dato che non ci sono giusti, lui in persona è diventato quell’uomo giusto che mancava. Gesù è la nostra giustizia ed è nel suo nome, e solo nel suo nome, che possiamo chiedere ed ottenere perdono. La vera risposta al male del mondo, la vera sorgente di una inesauribile speranza, è la misericordia di Dio. Faccia pure la giustizia umana il suo corso doveroso e necessario, ma sia consapevole che il rimedio vero e profondo al male dell’uomo sta solo nella misteriosa ed infinita misericordia del Figlio di Dio. Se la accogliamo, essa “brucia” il nostro peccato.
IL TIMONE N. 105 – ANNO XIII – Luglio/Agosto 2011 – pag. 60
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