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10.12.2024

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Una Teologia senza il Padre?
31 Gennaio 2014

Una Teologia senza il Padre?

 

 

La “perdita del padre” ha interessato anche la teologia. Ma senza il Padre comune, non si può parlare nemmeno di fraternità

 

La vera teologia è sempre stata, e sempre sarà, un indispensabile servizio alla fede di tutti, attraverso la riflessione razionale sui misteri rivelati da Dio e proposti dalla Chiesa come l’unica verità che salva. Il senso dei misteri rivelati si comprende alla luce della volontà salvifica universale di Dio, il quale – come Egli stesso ha espressamente detto − «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità ». Per questo la teologia deve essere al servizio della fede di tutti.
La Chiesa ha molta stima della vera teologia e considera il lavoro dei teologi un prezioso servizio al munus docendi della Gerarchia. In effetti, dall’età patristica ai nostri giorni, la Chiesa ha riconosciuto la santità di molti teologi, alcuni dei quali sono stati anche insigniti del titolo ecclesiale di “dottori”; e non è senza un profondo significato che san Tommaso d’Aquino sia stato canonizzato e dichiarato “Lumen Ecclesiae”, non per aver compiuto straordinarie opere di carità o di governo ecclesiastico, ma proprio per aver contribuito efficacemente all’intelligenza della fede con la sua teologia. In quest’ottica si comprende come la vera teologia non debba relativizzare la dottrina della fede; a essa spetta il compito di fornire delle ipotesi di interpretazione dei dogmi, ma rispettando sempre la trascendenza della Parola di Dio, che comunica all’uomo i misteri della salvezza, verità inaccessibili nel loro contenuto soprannaturale e allo stesso tempo assolutamente certi nei termini essenziali con cui sono formulate.
Solo così la teologia compie la sua missione propria, che consiste nell’agevolare la comprensione delle verità rivelate, sia da parte dei credenti (catechesi) che da parte di tutti quanti sono chiamati a credere (evangelizzazione). Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio, la vera teologia deve sempre scartare quei sistemi di pensiero – non importa se antichi o moderni – che portano al relativismo dogmatico o al razionalismo, negando più o meno esplicitamente la verità di ciò che Dio ci ha rivelato per la nostra salvezza. La teologia deve pertanto fare uso della filosofia (che è strumento indispensabile dell’interpretazione dei dogmi) in modo critico, senza farsi irretire da quei sistemi di pensiero che risultano incompatibili con i principi della retta ragione (il “senso comune”), non potendo così servire ad approfondire i contenuti razionali della verità rivelata.

La paternità divina nella storia della Chiesa
Ora, la rivelazione cristiana ci ha fatto sapere (nel mistero, ma con assoluta e consolante certezza) che Dio onnipotente e misericordioso ci concede di chiamarlo “Padre” e lo è davvero perché ci ha destinati ad essere figli suoi adottivi nel Figlio suo Gesù, con la grazia dello Spirito Santo. La paternità divina è espressione dell’Amore di Dio come creatore e come redentore, e per questo “da Dio prende nome ogni paternità creata”. Nel suo carattere trascendente (la Trascendenza è Dio stesso in quanto creatore del mondo e dunque fonte di ogni realtà e di ogni valore) la paternità divina è al centro dei misteri della fede, e come tale deve essere illustrata (non obnubilata) dalle riflessioni teologiche sulla Trinità, sul Verbo Incarnato, sulla Chiesa e sui sacramenti della Nuova Legge. Così è stato all’epoca dei Padri della Chiesa greca e latina, così è stato nel Medioevo con san Tommaso d’Aquino, così è stato anche nell’Ottocento, con un teologo tedesco come Matthias Joseph Scheeben (che scrisse Die Misterien des Christentums) e così anche ai nostri giorni con il teologo svizzero Charles Journet (autore del ponderoso trattato su L’Eglise du Verbe Incarné).

La perdita del padre nella teologia moderna
Purtroppo, l’influsso del pensiero protestantico (che di per sé non può essere vera teologia, in quanto ignora per principio la nozione di “dogma”, avendo rifiutato la funzione regolatrice del Magistero) ha determinato oggi, anche in campo cattolico, l’adozione di categorie di pensiero mutuate da sistemi filosofici incompatibili con le ragioni della fede cristiana.
Una di queste categorie è quella dell’assoluta immanenza, per la quale la trascendenza di Dio e la gratuità del suo amore sono interpretati in chiave idealistica, come “cifre” dello spirito umano. Il teocentrismo, che è la categoria teologica essenziale per l’interpretazione dei dogmi (innanzitutto il dogma della creazione e poi anche il dogma della Redenzione operata da Cristo, Figlio di Dio fatto Uomo, e infine il dogma della Chiesa come corpo mistico di Cristo), è interpretato come espressione simbolica dell’antropocentrismo. E uno degli effetti della cosiddetta “svolta antropologica della teologia”, già denunciata a suo tempo da padre Cornelio Fabro come perniciosa per l’intelligenza della fede, è appunto l’aver ridotto l’idea dell’incorporazione a Cristo con il Battesimo e la susseguente fraternità tra tutti i battezzati a mere espressioni religiose della comune condizione umana, per la quale ci si deve sentire tutti uguali e per la quale ci si deve comportare in modo solidale.
La vera teologia ha molte buone ragioni per superare l’appiattimento antropologico riscoprendo la rivelazione della paternità divina come fondamento teocentrico della fraternità umana. La vera teologia non perde mai di vista come sia stata l’Incarnazione del Verbo a rivelarci in modo pieno e definitivo il mistero della paternità divina e della nostra filiazione adottiva. In effetti, nell’Antico Testamento il rapporto tra Padre e figlio – figura del rapporto tra Dio ed uomo – si limita a quella dimensione antropologica (morale, ascetica, mistica) per la quale spetta alla creatura il riconoscimento del Creatore come un Padre onnipotente e misericordioso, l’adorazione, la gratitudine, la fiducia di poter arrivare a un ricongiungimento con Lui attraverso l’obbedienza alla sua Legge e il compimento della propria missione in seno al suo Popolo.

Figli dell’unico Padre
Nel Nuovo Testamento, questo rapporto è capovolto, perché è il Padre che prende l’iniziativa: è Lui che invia il Figlio suo per redimere gli uomini con il sacrificio di Gesù, è Lui che in Cristo rende gli uomini “partecipi della natura divina” e quindi figli in senso pieno. Il frutto spirituale più prezioso di questa inaudita iniziativa della paternità divina è che, in virtù della grazia di Cristo, anche i figli di Dio sono resi capaci di un autentico dono di sé, testimoniando ai fratelli, con la loro carità operosa, la verità della filiazione divina. È dunque la paternità divina il fondamento della vera fraternità: soltanto Lui può riunire gli uomini con i vincoli dell’amore, consentendo loro di superare i limiti e le miserie della natura ferita dal peccato originale. Lo ricordava il papa Benedetto XV nella sua prima enciclica, Ad Beatissimi Apostolorum Principis, pubblicata il 1° novembre 1914: la fraternità fra gli uomini, se non è fondata sul riconoscimento della paternità divina, rimane solo un’utopia politica. In effetti, osservava il Papa – si era nell’imminenza della prima Guerra mondiale −, le ideologie anticristiane parlano sempre di fraternità, ma «mai tanto si disconobbe la umana fratellanza quanto ai giorni che corrono», come dimostrano gli odi di razze, la lotta di classe, l’egoismo individualistico.


Per saperne di più…

 

Mario Mesolella, La preghiera naturale. Analisi del “Padre nostro” alla luce della logica aletica, Leonardo da Vinci, 2010.
Antonio Livi, Filosofia e teologia, Edizioni Studio Domenicano, 2009.

 

 

 

 

Dossier: IL MISTERO DELLA PATERNITÀ DIVINA

 

IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 44 – 45

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