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13.12.2024

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Una virtù da conoscere
31 Gennaio 2014

Una virtù da conoscere


La misericordia esige umiltà e timor di Dio. Ed è collegata alla giustizia divina. Che non è arbitrio, ma rispetta la nostra libertà di creature. Attenti al “buonismo” che tende a perdonare tutto e tutti. È un grave errore

La misericordia è una virtù che in noi creature umane richiede umiltà in chi deve darla e umiltà in chi deve riceverla. Chi infatti è orgoglioso, centrato su se stesso, prepotente, egoista, non è misericordioso con nessuno. Ma anche chi, per orgoglio, non vuol riconoscere la propria miseria, le debolezze, i bisogni e i peccati, non ritiene di meritare compassione, di essere aiutato, corretto, perdonato. La misericordia richiede un cuore grande, pronto a donare. Per questo è soprattutto virtù divina. Miseri- cordia vuol dire cuore, attenzione, amore, premura, zelo, solerzia per il misero, il povero, il sofferente, il bisognoso. Ma perché il misericordioso possa esercitare la misericordia, occorre che il miserando si riconosca tale e sia disposto a essere aiutato. Il che non sempre avviene, soprattutto quando si tratta di mali o miserie dello spirito, come l’attaccamento a falsità e peccati. Così, proprio chi avrebbe bisogno di convertirsi lancia accuse di invadenza, dispotismo, aggressività a chi sarebbe disposto a illuminarlo e correggerlo.

Che cosa è?
Detta pietas in latino ed èleos in greco, è nota e apprezzata nella cultura classica perché corrisponde, aldilà di egoismi, durezza di cuore e volontà di potenza, a quella radicale propensione a operare il bene degli altri, soprattutto se bisognosi, rimasta nel cuore umano anche dopo il peccato originale. Questa propensione a soccorrere chi ha bisogno è una specie di istinto naturale nel vivente, anche fra gli animali: ogni simile vede nel suo simile un altro se stesso e dà all’altro quello che darebbe a se stesso se avesse lo stesso bisogno. A volte invece gli uomini sono più stolti ed egoisti delle bestie, in quanto non solo non si prestano ad aiutare gli altri, ma tendono a sfruttarli per i propri interessi od opprimerli perché fanno ombra alla propria mania di grandezza. A questi “superuomini” i deboli, i poveri, i sofferenti, gli sprovveduti, come nelle idee deliranti di Nietzsche, non suscitano compassione, ma solo disprezzo. Addirittura, per una falsa e ideologica concezione della natura umana, incapaci di riconoscere l’universalità dei bisogni e dei valori morali, quei tali vedono nell’altro non un proprio simile, ma un nemico da combattere. Invece, l’uomo misericordioso riflette in se stesso la bontà del Creatore infinitamente misericordioso e, come canta il Salmo, è l’uomo veramente felice: «Beato l’uomo che pensa al debole e al povero: nel giorno del male il Signore lo libera, lo custodisce, lo fa vivere, lo rende beato sulla terra e non lo consegna nelle mani dei suoi nemici» (Sal 41,2).
Non si contano i passi della Scrittura in cui Dio è lodato e invocato per la sua misericordia, senza mai però escludere la sua giustizia e la sua severità («ira»), che però è assai meno attiva della misericordia. Nella Bibbia più volte Dio abbandona il proposito di punire per usare misericordia. Ciò non vuol dire che Dio cambi idea, ma solo che il peccatore, pentito, attira su di sé il perdono divino. Del resto è Dio stesso che, per misericordia, suscita il pentimento del peccatore: se non si pente, è colpa sua.
La misericordia, nell’ebraico biblico hesed, richiama l’idea della tenerezza materna: rahamìm, parola che esprime questa virtù, sono le viscere materne. In tal senso è rimasta famosa l’affermazione di Giovanni Paolo I, ricca di contenuto teologico, secondo cui Dio è «padre» ma anche «madre». Se dunque Dio è sommamente misericordioso e l’uomo deve imitare la santità divina, nella Scrittura è pressante il dovere dell’uomo di essere misericordioso. Cristo dice con chiarezza che chi non è misericordioso non può ottenere da Dio misericordia. La Bibbia distingue la misericordia come virtù naturale, dettata da un elementare senso di umanità, la cosiddetta “solidarietà”, dalla misericordia come virtù teologale fondata sulla fede e motivata dalla carità, per cui il credente vede nell’altro una creatura bisognosa di ricevere la salvezza portata da Cristo e si adopera perciò per condurla a Lui.

La missione nasce dalla misericordia
La correzione dei vizi e la confutazione delle eresie nascono dalla misericordia. Così il Catechismo di San Pio X elenca una serie di opere di misericordia materiale e spirituale [vedi articolo che segue, ndr]. Somma misericordia, dice San Tommaso, è guidare un fratello dalle tenebre dell’errore alla luce della verità. L’umiltà è richiesta all’uomo che vuol esser misericordioso, ma non è necessaria a Dio: anzi, in Lui neppure esiste, giacché è virtù esclusivamente propria della creatura, in quanto consiste nella consapevolezza della propria dipendenza da Dio e quindi nell’obbedienza ai suoi comandi, oltre che nel riconoscimento delle proprie miserie e dei propri peccati. Dio non ha bisogno di nessuno, ricco com’è di infinite perfezioni. Non deve obbedire e chiedere perdono a nessuno. È a Lui invece, come a loro Creatore, che tutti devono obbedienza ed è Lui, bontà e misericordia infinite, che aiuta tutti e tutti perdona.
Peraltro, la virtù della misericordia non suppone solo il saper discernere i bisogni altrui, ma richiede anche il possesso dei mezzi o della forza atti a sollevare il misero dalla sua miseria. Occorre allora implorare la divina misericordia. A Dio onnipotente invece non costa nulla sollevare qualunque miseria, togliere qualunque peccato, eliminare ogni male. Perché dunque non sempre lo fa, ma lascia sussistere tanti mali, ingiustizie, peccati, sofferenze? Forse che manca di bontà e la sua misericordia è limitata? Impensabile, non sarebbe Dio. La risposta che ci viene dalla fede è la considerazione di un altro attributo divino: quello della giustizia, che opera sempre insieme con la misericordia.
Impossibile capire cosa sia la misericordia divina se non la si collega con la giustizia. Dio, proprio perché buono, misericordioso e onnipotente, permette un male per ricavare da esso un bene maggiore di quello che ci sarebbe stato se non ci fosse stato quel male. Egli ha permesso il peccato originale per darci Cristo. Con ciò è detto tutto.

“Buonismo” pericoloso
La contrapposizione tra giustizia e misericordia è falsa e pericolosa ed è alla base dell’attuale buonismo che in nome di una falsa idea di misericordia e della volontà divina di salvare tutti, non vuol sentir parlare di giustizia divina e umana che richiamano, secondo il piano divino della salvezza, tutta una serie di dati rivelati: l’esistenza del peccato originale e delle sue conseguenze, il castigo divino, il timor di Dio, l’espiazione, la riparazione, la soddisfazione operate da Cristo, la predestinazione alla salvezza, l’elezione alla salvezza, l’offerta del sacrificio per la remissione dei peccati, il merito delle buone opere, la ricompensa nell’aldilà, l’azione di Satana e i dannati dell’inferno.
Per costoro la giustizia divina che castiga appare una crudeltà incompatibile con la bontà divina, che si attuerebbe sempre e solo con la “misericordia”. In realtà la bontà divina, in quanto opera il bene delle creature razionali, richiede che a ciascuna di esse sia reso secondo i suoi meriti, il che è appunto compito della giustizia. Se poi verso i reprobi e i dannati gioca solo la giustizia ed è assente l’esercizio della misericordia, questo non vuol dire che questa di per sé abbia dei limiti. Al contrario, per sua natura è infinita; ma in questo caso è impedita nella sua azione dalla resistenza del peccatore, che non vuol pentirsi. Non è Dio che non vuol usare misericordia ma il peccatore, ritenendosi giusto, non sente il bisogno di riceverla. Dio permette sì che agli innocenti accadano sventure – ha cominciato con suo Figlio – che a tutta prima appaiono castighi. Ma la misericordia come tale non manda la sventura, la toglie. Le sventure sono conseguenza del peccato originale e dei nostri peccati personali. Dio offre misericordia a tutti (Rm 11,32), così come offre a tutti la possibilità di salvarsi: è quella che si chiama la grazia “sufficiente”. Ma siccome alcuni rifiutano liberamente e colpevolmente questa misericordia, ecco che la grazia sufficiente non può diventare “efficace”, cioè non si salvano non per volontà di Dio, ma per loro volontà.
Che Dio permetta la sventura è ancora segno della sua misericordia, ma solo chi crede nell’opera redentrice di Cristo può capirlo. Accogliendo da Dio la sventura senza lamentarci, ma vedendo anche qui un piano di misericordia, possiamo in Cristo riparare ai nostri peccati, compiendo un’opera di giustizia, mentre Dio a sua volta è giusto nell’esigere una riparazione, che peraltro solo Cristo può attuare con i suoi infiniti meriti. Che Dio in Cristo, con le nostre opere e le nostre sofferenze, ci dia la possibilità di riparare, come osserva San Tommaso, questo è effetto della sua misericordia: per misericordia del Padre, infatti, noi in Cristo abbiamo la possibilità di liberarci dai nostri peccati ottenendo il perdono divino e contribuendo attivamente alla nostra salvezza: ciò che Lutero non ha visto.

Dio non salva tutti

La misericordia del Padre è un duplice torrente che scorre su due alvei: come dono gratuito del perdono e come possibilità di riscattarci con le nostre opere e i nostri meriti, come insegna il Concilio di Trento, il tutto in unione con Cristo e grazie ai meriti di Cristo. Di fatto però Dio non salva tutti, come insegna sempre il Concilio di Trento. I salvati sono gli «eletti» (Mt 22,14; 24,22; Lc 18,7; Rm 8,33; II Tm 2,10; Ap 17,14) ed “eletto” vuol dire “scelto da un insieme che resta fuori”. Oppure, come afferma San Paolo, si è «predestinati» (Rm 8,30; Ef 1,5.11). Da cui si capisce che non tutti lo sono, perché Paolo dice «quelli che sono predestinati», dunque ci son altri non predestinati.
Dio peraltro, quando salva, “muove” con la sua grazia efficacemente e infallibilmente l’atto volontario e libero dell’eletto o predestinato, in modo tale che raggiunga la salvezza. Nessuno invece è predestinato alla dannazione. Chi si perde, si perde per colpa propria. L’idea che Dio predestini all’inferno è una bestemmia e un’orribile eresia, condannata dalla Chiesa già dal secolo VIII e ripresentatasi poi con Calvino.
L’aver accantonato tutti questi aspetti della giustificazione, insegnati dalla fede in particolare nel Concilio di Trento, ma anche dalla Scrittura e da tutta la Tradizione, per un’illusoria convinzione che, comunque vadano le cose, ci salviamo tutti, perché Dio è “misericordioso”, è un gravissimo errore che deforma non solo il concetto della misericordia, ma l’intera opera salvifica di Cristo, suscitando una condotta irresponsabile e perversa, che conduce alla perdizione. È vero che il Concilio Vaticano II non insiste su queste verità, ma ciò non vuol dire che, come credono i modernisti, si tratti di idee superate: al contrario, sono parte di quel patrimonio dottrinale immutabile, del quale parlava Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Gaudet Mater Ecclesia, citandole come quel corpo di verità che bisogna esporre in un linguaggio adatto agli uomini del nostro tempo.
Dio, ben lungi dall’essere misericordioso, sarebbe ingiusto se ci consentisse di farla franca approfittando della sua bontà, con l’idea di ricevere misericordia senza distaccarci dai nostri peccati, come credeva Lutero. Certo, «Dio è misericordioso e lento all’ira» (Es 34,6), ma «non ci si può prendere gioco di Lui» (Gal 6,7).
È bene dunque, mentre si confida nella sua misericordia, conservare sempre un santo “timor di Dio”, efficace per evitare il peccato e ottenere la sua misericordia. Del suo amore non si può dubitare, ma possiamo e dobbiamo dubitare della nostra fragilità e inaffidabilità. Dio appare più misericordioso nel Nuovo Testamento che nell’Antico; eppure anche sulla bocca di Cristo non mancano severissime minacce contro i ribelli. Per non parlare dell’Apocalisse. Perciò occorre sempre accomunare la considerazione della misericordia con quella della giustizia, come fa San Tommaso congiungendo nella Somma Teologica l’esposizione dell’una e quella dell’altra in una medesima questione (pars I, q.21).

Le emozioni non c’entrano
Stiamo attenti a non concepire la misericordia divina in modo grossolano, così che alla fine diventa grave mancanza di rispetto per Dio stesso. È invalso l’uso da alcuni decenni in ambito cattolico di dissertare all’infinito, col pretesto delle sofferenze di Cristo, sulla cosiddetta “sofferenza di Dio”, un’antica eresia risorta col protestantesimo. Non bisogna concepire la misericordia divina come un fatto emotivo. Ciò può accadere a noi, per cui vale il precetto paolino «soffrite con chi soffre», ma attribuire la sofferenza alla natura divina, la quale è semplicissima, atto puro di essere, priva di passività, assolutamente impassibile, immutabile, inviolabile e incorruttibile, incapace di qualunque imperfezione o privazione, vuol dire recare grave offesa a Dio stesso.
Se Dio vede qualcosa che non gli piace non è che “soffra”: la disapprova e semmai la toglie. La sofferenza riguarda l’umanità di Cristo, non la divinità. Se noi cristiani accettiamo la sofferenza non è perché siamo masochisti che la amano per se stessa o ne fanno un attributo divino, ma perché nel piano della divina misericordia è previsto che, grazie alla sofferenza espiatrice di Cristo uomo, e della nostra in Lui, siamo liberati dalla sofferenza. Come spiega San Tommaso, la misericordia in Dio è semplicemente la sua volontà e la sua potenza di togliere ogni male, e per questo non c’è bisogno di alcuna sofferenza. Dio, col suo intelletto, sa cos’è la sofferenza infinitamente meglio di noi, che la conosciamo con i sensi. In noi può esistere la sofferenza spirituale, ma in Dio non c’è neppur quella. Se la sofferenza è strumento di redenzione, ciò fa riferimento semplicemente all’atto espiativo dell’umanità di Cristo il quale, con la sua potenza divina impassibile, dà alla sofferenza un valore redentivo che da sola non può avere, ma non vuol dire che la sofferenza debba essere un attributo divino: ciò è un’assurdità che falsifica completamente il Dio della ragione e della fede.
Discorso simile va fatto per l’“ira” divina. In Dio purissimo Spirito non ci sono le passioni, qualità proprie dell’animalità, come il soffrire o l’adirarsi. Così l’ira divina significa semplicemente la sua giustizia, per la quale Egli, che lascia libero ognuno di fare le proprie scelte, prende atto del peccatore che rifiuta la sua misericordia e con ciò stesso si danna eternamente.

Dossier: LA MISERICORDIA

IL TIMONE N. 129 – ANNO XVI – Gennaio 2014 – pag. 36 – 38

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