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14.12.2024

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Un’amicizia da approfondire
31 Gennaio 2014

Un’amicizia da approfondire

 

 

 
 

Il loro fu un sodalizio umano e intellettuale fecondo per entrambi. Manzoni e Rosmini si conobbero a Milano nel 1826. Prima di morire, Rosmini lasciò a Manzoni il suo testamento spirituale: «adorare, tacere, godere».

 
 
Nel cuore dell’Ottocento le quiete rive del Lago Maggiore hanno ospitato la crescita di un’amicizia importante: quella tra Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni.
I due si erano conosciuti – tramite il comune amico Niccolò Tommaseo – nel 1826 a Milano, dove Manzoni (già affermato autore degli Inni Sacri) abitava e Rosmini (giovane prete dalla spiccata vocazione intellettuale) aveva iniziato a soggiornare.
I loro colloqui domenicali, in casa Manzoni, vertevano sulla rivoluzione francese, sull’economia politica e sulla questione della lingua.
Rosmini ebbe tra mano prima della pubblicazione la versione «ventisettana» del futuro I promessi sposi, e al suo suggerimento pare si debba la reimpostazione di alcuni episodi del romanzo originariamente troppo romanticheggianti: ad esempio, don Rodrigo, che nel Fermo e Lucia muore disperato a cavallo di un nero destriero, ne I promessi sposi viene pacatamente affidato da Padre Cristoforo alla misericordia di Dio. Manzoni, dal canto suo, fu pochi anni dopo tra i primissimi lettori e critici del Nuovo saggio sull’origine delle idee: il capolavoro giovanile di Rosmini.
Dopo il ritiro di Rosmini al Monte Calvario (presso Domodossola) e la seguente fondazione dell’«Istituto della carità», il rapporto tra i due proseguì come scambio epistolare. Almeno fino alla primavera del 1848, quando Rosmini – da Stresa, dove ormai risiedeva – venne a Milano, dopo che la città era stata abbandonata dagli Austriaci in seguito alle «cinque giornate». La nuova situazione politica consentiva a Manzoni di dare alle stampe la sua ode Marzo 1821; e a Rosmini di pubblicare un suo testo fino ad allora inedito – la Costituzione secondo la giustizia sociale –, contenente un geniale modello di assetto costituzionale per gli Stati della penisola italiana, in vista di una loro possibile unione confederale. I due, accomunati da una vera passione risorgimentale, non si trovavano però d’accordo sulla forma che l’Italia avrebbe dovuto acquisire: una confederazione di Stati, garantita dall’autorità del Papa, secondo Rosmini; uno stato centralmente diretto e amministrato, al cui interno il Papa non avesse responsabilità politiche di nessun genere, secondo Manzoni.
Nell’agosto del ’48 Rosmini partì come rappresentante del governo piemontese per la sua «missione a Roma», durante la quale giunse ad un passo dalla realizzazione in forma pacifica di una confederazione di Stati italiani. Il progetto, che avrebbe dato al movimento risorgimentale tutt’altro indirizzo da quello che conosciamo, fu però bloccato dal nuovo governo piemontese, che finì per revocare a Rosmini il mandato. Di ritorno sul Lago Maggiore nel novembre del ‘49, Rosmini vi trovò il vecchio amico «don Alessandro». Manzoni, infatti, prevenendo il rientro delle truppe austriache in Milano, dall’agosto del ’48 si era trasferito a Lesa, sulla riva piemontese del lago.
Proprio a Lesa, nel 1850, Manzoni – che nel frattempo era diventato «ascritto» rosminiano, cioè terziario dell’«Istituto della carità» – compose lo splendido dialogo Dell’invenzione, che costituisce una sorta di sua pubblica resa alla teoria rosminiana dell’essere, verso la quale non aveva nascosto qualche riserva. Da parte sua, Rosmini avrebbe dedicato nel 1854 all’amico Manzoni un testo – Del divino nella natura –, destinato a far parte del suo capolavoro filosofico: la Teosofia. I primi anni Cinquanta sono il tempo dei lunghi e frequenti colloqui filosofici tra i due amici. Quando Manzoni si trovava a Lesa e Rosmini a Stresa, alternativamente i due ricoprivano i dieci chilometri che separano i due paesi, per farsi visita. Capitava che li accompagnasse Ruggero Bonghi, che di quei colloqui ci ha lasciato un vivace quanto libero resoconto in un suo piccolo capolavoro: Le stresiane.
Quando, nella primavera del 1855, Rosmini si ammalò gravemente, Manzoni accorse a Stresa da Milano, ed accompagnò l’amico nelle sue ultime settimane di vita. I Padri Rosminiani custodiscono ancora – immutata – la stanza nella quale, poco prima di morire, Rosmini lasciò appunto a Manzoni il proprio testamento spirituale: «adorare, tacere, godere».
Che cosa Rosmini deve a Manzoni? Anzitutto una maturazione linguistica non indifferente: dal purismo un po’ ingessato degli esordi, Rosmini approdò progressivamente ad una lingua più viva e più «manzoniana». In campo filosofico, egli deve al Manzoni il superamento dell’«innatismo» – superamento ben avvistabile nei capolavori della maturità. Leggendo lo splendido carteggio sviluppatosi tra i due autori, si può ricostruire come Manzoni abbia condotto Rosmini a evitare il presupposto razionalistico che gli faceva considerare l’essere come una forma innata della mente, per concentrarsi piuttosto sulla natura automanifestativa di esso, rispetto a cui nessuna mente può porsi a distanza.
Che cosa Manzoni deve a Rosmini? Certamente una più pacificata relazione con la Provvidenza. Ma anche altro. Per esempio, la scoperta di una vocazione filosofica, di cui il dialogo Dell’invenzione è l’espressione migliore. La domanda da cui il dialogo parte – «cosa fa il poeta quando inventa?» – è quella lasciata aperta dal Saggio sul romanzo storico; per rispondere alla quale l’autore introduce le figure principali dell’ontologia di Rosmini. La filosofia rosminiana come risposta ai problemi dell’estetica manzoniana: questo potrebbe essere il sottotitolo di un’opera che sarebbe perfetta come testo classico di lettura per l’ultimo anno dei licei. Ma una certa vocazione metafisica di Manzoni è – sia pur indirettamente – testimoniata anche da Le stresiane, dove il tema della libertà del Creatore è da lui trattato con un’audacia che ricorda Schelling, e che il Rosmini fatica un po’ a riportare entro binari classici.
Un lavoro che invece può dirsi condotto in comune dai due autori è la critica alla posizione etica che oggi chiamiamo «consequenzialismo». Ce ne rimane una traccia cospicua in quella seconda versione delle manzoniane Osservazioni sulla morale cattolica (1855), dal Rosmini tanto sollecitata. Qui Manzoni, in sintonia con l’insegnamento rosminiano, contrappone ad un’etica che pretende di valutare un comportamento congetturando sulla qualità piacevole o utile dei suoi (solo probabili) effetti futuri, un’etica che valuta un comportamento dalla sua giustizia, cioè dal suo tentativo di rispettare la natura della realtà. Questa posizione manzoniana, peraltro, è la stessa che troviamo adombrata nella «morale» con cui si chiudono I promessi sposi, là dove l’«anonimo secentista» ci ricorda che «si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio».

Ricorda

 

«Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein […]. Ovviamente […] non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede».
(Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 74).

Bibliografia


Alessandro Manzoni – Antonio Rosmini, Carteggio, a cura di G. Bonola, Sodalitas, 1996.
Alessandro Manzoni, Dell’invenzione, a cura di Pietro Prini, Morcelliana, 1986.
Idem, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di Romano Amerio, Ricciardi, 1966
Ruggero Bonghi, Le stresiane, a cura di Pietro Prini, Piemme, 1997.

IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 32-33

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